« Onora tuo padre e tua madre »

« כַּבֵּד אֶת אָבִיךָ וְאֶת אִמֶּךָ »
Kabbed et avikha ve-et immekha
Onora tuo padre e tua madre
(Ex 20,12)

Nella serie Il senso delle cose (titolo inglese: Reformed, trasmessa su Prime/Max), una donna rabbino, Léa, inizia il suo ministero in una sinagoga liberale di Strasburgo. L’episodio 5, intitolato “Il figlio ribelle”, pone nuovamente Léa in una posizione difficile: come aiutare una coppia di genitori ebrei, ormai distaccati dal giudaismo, ad affrontare la scelta religiosa del figlio? Ritorno evidente a una pratica ortodossa per il figlio, radicalizzazione religiosa per i genitori, abisso doloroso per il padre?

Léa si rivolge al suo antico mentore, Arié, rabbino ortodosso. Arié, fine stratega, sceglie di non confrontarsi direttamente con il figlio. Lo raggiunge nella yeshiva. E lì, usa un’arma gentile: l’umorismo. Lo rimprovera, divertito, di non rispettare la ḥaverout (חֲבֵרוּת), cioè lo studio senza compagno (dalla stessa radice di ḥaver, amico). Evoca questa struttura binaria del Talmud, in cui si impara pensando in due, contraddicendosi senza rompersi, cercando insieme. La ḥaverout non è un’armonia, ma una tensione mantenuta, una polarità viva.

Basta essere in due per fare ḥaverout?

Léa e Arié si ritrovano insieme a una conferenza repubblicana sul vivere insieme, dove rappresentanti dei diversi culti sono invitati a un discorso interreligioso — erroneamente presentato dalla moderatrice come un dialogo ecumenico. Léa si ritrova presto al centro di una configurazione inaspettata: un uomo del pubblico, visibilmente ostile, attacca l’imam presente, mettendo in dubbio la compatibilità dell’islam con la Repubblica.

Léa prende il microfono per affermare che l’islam non è il problema, ricordando che la radicalizzazione, sotto ogni forma, attraversa tutte le tradizioni religiose. Da lì nasce una dinamica: lei e Arié, da posizioni diverse, iniziano a parlare, a rispondersi, a occupare lo spazio — fino a saturarlo. Involontariamente, diventano i due poli di una frattura artificiale. Quel che doveva essere uno spazio di scambio diventa un fronte. Il dibattito si blocca.
Non riescono più a uscirne. Léa, spinta all’estremo, rende la parola di Arié inascoltabile, che diventa agli occhi del pubblico una figura dell’intolleranza religiosa.

Come continuare a parlare senza essere ventriloquati?

Léa ottiene gli applausi. L’uomo che aveva attaccato l’imam viene a congratularsi calorosamente con lei. Le persone si accalcano per fare selfie. Si capisce che il suo intervento è già stato condiviso sui social e sta per diventare virale. Arié, invece, lascia la sala sconfitto.

Si percepisce l’ironia amara vissuta da Léa: questa vittoria è anche una sconfitta. L’applauso maschera un’espropriazione. Una parola pensata come fine, equilibrata, disallineata, può essere subito catturata.

Per restituire questa delusione (nel senso di inganno), la serie inserisce una scena durante i titoli di coda:
una donna si congratula con Léa, accusando Arié di estremismo. Conclude dicendo che religione e patriarcato sono la stessa cosa. Uno non può scomparire senza l’altro. Léa sorride, ma il suo turbamento è visibile: è celebrata per una battaglia che non ha scelto, proiettata in un campo che non ha voluto. La sua posizione sottile viene deviata, catturata, strumentalizzata.

« C’è un confine »

Ed è qui che riemerge il quinto comandamento — Onora tuo padre e tua madre — non come principio astratto, ma come punto di rottura. Perché è sulla voce del padre, sul suo sgomento e su quello di sua moglie, che si conclude l’episodio. «Yesh gvul» (יש גבול), dice lui — «C’è un confine.» Una frase ereditata da suo padre, con cui aveva rotto. Una frase semplice, grave, posta come argine contro il crollo.

Siamo allora invitati a guardare Léa e Arié sotto questa luce. Non come opposti, e nemmeno come complementari, ma come una ḥaverout interpretativa. Due letture in dialogo, una tensione mantenuta senza fusione. Non sono lì per decidere, né per unificarsi, ma per rendere udibile lo sfregamento tra due fedeltà.

Semplificando:
una fedeltà alla lettera, l’altra allo spirito; una al corpo della tradizione, l’altra al suo respiro. Ma per essere onesti, bisognerebbe dire che Arié è tanto spirito quanto lettera, tanto corpo quanto respiro — così come lo è Léa. I due si interpenetrano.

Sulla gᵊvūl, la soglia

La parola ebraica גְּבוּל (gᵊvūl) significa innanzitutto limite concreto, confine geografico, frontiera territoriale. Nella Bibbia ebraica è spesso usata per descrivere le delimitazioni tribali (come in Giosuè) o le frontiere delle nazioni.

Ma gᵊvūl non è solo una linea sulla mappa: implica una struttura di convivència, un ordine simbolico che separa senza necessariamente opporre. È una soglia che non si oltrepassa senza autorizzazione, senza conseguenze. Appartiene alla categoria del "liminare", in senso etico e ontologico.

Nella halakhah (legge ebraica), ritroviamo il principio di הַסָּגַת גְּבוּל (hassagat gᵊvūl), il divieto di invadere lo spazio altrui — in senso materiale, ma anche professionale, sociale o spirituale. È una forma di rispetto della separazione giusta.

Nel contesto della serie, la gᵊvūl agisce su più livelli:

  • un limite interiore, che non si attraversa nel dibattito;

  • un limite etico, posto dal padre per proteggere l’integrità della relazione;

  • un limite strutturale, che Léa tenta di mantenere contro la polarizzazione.

Ma il discorso del padre mi ha fatto pensare a un’altra parola ebraica: שְׂפָה (sᵊfāh), un termine poetico e ambivalente che significa:

  • bordo, riva, margine (spaziale):
    sᵊfat hayam (שְׂפַת הַיָּם) = il bordo del mare (Gn 22,17 ; Es 14,30)

  • labbro, apertura (corporeo o architettonico):
    si parla del labbro di un recipiente (1 Re 7,23 ; 1 Re 7,26)

Uno spazio-soglia, fine e inizio al tempo stesso.

È un termine che associo spontaneamente a Paul Tillich. Non per forzarlo, ma perché Tillich stesso ha scelto questa immagine per il titolo della sua autobiografia intellettuale: On the Boundary (1966). La prima pagina comincia così:

«Nel mio Religiöse Verwirklichung, scrivevo:
"Il confine è il miglior luogo per conoscere."
Quando mi è stato chiesto di raccontare come le mie idee si siano sviluppate dalla mia vita, ho pensato che il concetto di confine potesse essere il simbolo più adeguato del mio intero cammino personale e intellettuale...»
(p. 13)

Quello che Tillich descrive, lo associo al termine sᵊfāh, che significa bordo, riva, lingua. Una parola dal margine, dalla soglia del senso, dal bordo del dire. Ci riporta, forse, alle periferie, alla talvera. Ma non si tratta qui di esilio o relegazione, bensì di un luogo d’elaborazione, di tensione sostenuta, dove si parla senza fissarsi in un polo o nell’altro.

La sᵊfāh dice qualcosa della parola stessa?

Forse ogni parola viene detta da un bordo, da una soglia, da un luogo che può sempre cedere. Léa parla da lì. Arié anche. Ma nessuno dei due, presi nel meccanismo, si accorge che parlano, in fondo, dallo stesso luogo.

Così Il senso delle cose non propone una soluzione, ma una geografia. Una mappa delle tensioni. Non indica un campo giusto. Ci insegna a stare sulla soglia — dove il confine diventa luogo della parola, luogo dello studio, luogo della verità. Dove la voce non cerca di vincere, ma di durare senza deformarsi.

Il figlio ribelle?

Il figlio ribelle, al centro dell’episodio, incarna una tensione cruciale: tra fedeltà e rottura, tra l’eredità familiare e la ricerca individuale di reintegrazione.
La sua adesione all’ortodossia, vissuta dai genitori come un tradimento, illumina il quinto comandamento:
«Onora tuo padre e tua madre».

Ma l’episodio, attraverso la ḥaverout e le figure di Léa e Arié, suggerisce che l’onore non sta nell’obbedienza cieca, né nella fusione, ma in una tensione mantenuta, un dialogo che rispetta il confine (gᵊvūl) — da entrambe le parti. Arié, avvicinandosi al figlio con umorismo, non cerca di riportarlo alla visione dei genitori, ma di insegnargli la ḥaverout: imparare a pensare con l’altro, a rispettare la pluralità delle voci, anche nel disaccordo.

Il figlio, con la sua ribellione, traccia un confine (gᵊvūl) tra sé e i suoi, ma quel confine è anche un luogo (sᵊfāh), una soglia dove può nascere una parola.

Il padre, dicendo Yesh gvul, non lo respinge: pone un limite etico, per evitare che la rottura diventi dissoluzione.

Il figlio ribelle non è un nemico, ma uno specchio delle tensioni di Léa e Arié. Come loro, naviga tra fedeltà alla tradizione e affermazione di sé. La serie non prende posizione, ma ci invita a vedere nella ribellione una possibilità di ḥaverout: uno spazio dove genitori e figli, tradizione e modernità, possano coesistere senza annullarsi.

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