Non parlare la propria lingua madre
Su Koltès e Salvatore Quasimodo
Stavo per scusarmi in anticipo per aver pubblicato qui degli appunti presi il giorno di Capodanno, senza riuscire a ricordare mentalmente quale blog, account Twitter o pagina Facebook mi abbia portato a scoprirli. Uno riguarda una pagina di Bernard-Marie Koltès, tratta da Combat de nègres et de chiens e citata in Une Part de ma vie (Éditions de Minuit). L’altro sono i celebri versi del poeta siciliano, premio Nobel per la letteratura, Salvatore Quasimodo. Concludono una lettera di François Koltès, fratello del primo, indirizzata all’attore, autore e regista italiano Pippo Delbono. La lettera, condivisa da Nicolas Roméas sul suo blog, è disponibile [qui].
Nel 1986, Patrice Chéreau mise in scena Quai ouest, scritto un anno prima da Bernard-Marie Koltès. Come sottolineato nell’intervista contenuta in Une Part de ma vie, vi si poteva trovare “la situazione di personaggi che non parlano la loro lingua madre”. Lo stesso si riscontrava anche in Combat de nègres et de chiens, come osservava l’intervistatore prima di citare la pagina in questione:
«Je trouve que le rapport que peut avoir un homme avec une langue étrangère tandis qu'il garde au fond de lui une langue "maternelle" que personne ne comprend est un des plus beaux rapports qu'on puisse établir avec le langage ; et c'est peut-être aussi celui qui ressemble le plus au rapport de l'écrivain avec les mots.»
(«Trovo che il rapporto che può avere una persona con una lingua straniera – mentre conserva nel profondo una lingua “materna” che nessuno comprende – sia uno dei rapporti più belli che si possano stabilire con il linguaggio; e forse è anche quello che più somiglia al rapporto dello scrittore con le parole.»)
Perché gli appunti presi quel giorno uniscano i due fratelli e un autore come Salvatore Quasimodo, non lo so. Quello che so è che, nonostante il mio interesse personale profondo, non riesco a separare queste note dal ricordo dei Nègres di Genet, attraverso Jean-Paul Sartre. Quest’ultimo, sicuramente, per via del processo che oppose François Koltès alla Comédie-Française nel 2007 (vedi qui).
In Une Part de ma vie, Bernard-Marie Koltès prosegue:
«Et puis cela permet de raconter certaines choses qu’on ne pourrait pas dire autrement. Dans La Fuite…, par exemple, Chabanne, lorsqu’il comprend qu’il est vraiment seul, oublie brusquement le français et se met à parler arabe, tandis que celle qui l’aime continue malgré cela à comprendre ce qu’il dit. Ou bien, dans Quai ouest, une vieille Indienne, […] lorsqu’elle meurt s’enfonce dans la mort d’abord en français, puis en espagnol, et, à la toute fin, dans sa langue indienne inconnue de tous.»
(«E poi questo permette di raccontare certe cose che non si potrebbero dire altrimenti. In La Fuite…, per esempio, Chabanne, quando capisce di essere davvero solo, dimentica improvvisamente il francese e comincia a parlare arabo, mentre colei che lo ama continua nonostante tutto a comprendere ciò che dice. Oppure, in Quai ouest, una vecchia indiana […] quando muore sprofonda nella morte prima in francese, poi in spagnolo, e, infine, proprio alla fine, nella sua lingua indiana sconosciuta a tutti.»)
È semplicemente una questione che mi ossessiona da anni, e che, come spesso accade con il teatro, attraversa la realtà come il raggio verde del tramonto, passando dal fondo della scena al fondo della sala. Che questa questione – tra le altre – sia stata considerata materia teatrale ed espressa con tanta chiarezza da qualcuno come Koltès, dovrebbe bastare per affrontare un 1º gennaio con determinazione e appetito.
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
(Acque e terre (1920–1929), Ed. Cahiers de l’Hôtel de Galliffet, Poems, Salvatore Quasimodo, 2012)