Due incontri teatrali: Martin Crimp ed Edward Bond



Un anno, tre mesi e quattordici giorni fa, a Vitry, un comune nella periferia sud-est di Parigi — descritto con un certo entusiasmo da TimeOut come «un polo suburbano dell’arte contemporanea e del teatro moderno» — stavo assistendo alla messa in scena di due opere del drammaturgo britannico Martin Crimp, alla presenza dell’autore, di sua moglie e di sua figlia. Era un evento raccolto, in un piccolo teatro-studio che ricordava uno chalet, a Vitry. Avevo letto qualche pagina dell’opera di Crimp Attempts on Her Life e avevo dovuto impararne qualche battuta per un evento artistico alla mia scuola di teatro. Sapevo ben poco del teatro britannico e quasi nulla dell’arte drammatica. Eppure ero lì, a mangiare pâté spalmabile e cetriolini sottaceto con un autore presente nel mio programma di studi. Lo sentii dire a uno dei ragazzi accanto a me, con tono ironico, che Playhouse era la sua «commedia felice». Durante la seconda pièce, The City — che contiene una scena con una figlia infernale, coperta di sangue, vestita in pelle, quasi il risultato Frankensteiniano di un esperimento chirurgico — ero seduto accanto a lui e alla sua famiglia. E non potei fare a meno di pensare all’autore, seduto al suo tavolo da lavoro, disturbato dalla propria bambina, mentre proiettava alcune delle sue ansie e frustrazioni nei personaggi della sua opera. Anzi, mi stavo abbandonando senza vergogna a questo legame tra autore, vita e opera — qualcosa che fino a quel momento avevo considerato volgare e che, probabilmente, ancora oggi guardo con un certo disprezzo.
Qualche mese dopo, mi ritrovai in una situazione simile, ad ascoltare dal vivo e in prima persona un’altra testimonianza teatrale da parte di un grande drammaturgo contemporaneo di cui, fino ad allora, mi ero completamente privato. Ed è stata un’esperienza sconvolgente. Non parlerò ora di cosa significò per noi trovarci, un lunedì mattina alle 10, seduti come spettatori nel parterre della Salle Richelieu, che Edward Bond ci ricordò essere la «casa di Molière», accolti da Éric Ruf, direttore dell’istituzione. Per quanto altisonante possa sembrare, il nostro entusiasmo non aveva nulla a che vedere con i nostri pur vivaci narcisismi. Avevamo un bisogno fisico di ascoltare chi fa davvero teatro, cimentarsi con le proprie riflessioni sull’arte drammatica. Era la cosa più vicina a ciò che io e due miei compagni avevamo cercato di fare nei mesi precedenti: mettere in parole il nostro recitare/giocare. E Dio, quanto ci siamo divertiti.
Finito il suo discorso introduttivo, Éric Ruf si ritirò, e rimanemmo con Edward Bond e Jérôme Hankins, il traduttore francese delle sue opere, seduti quasi troppo vicini su due sedie pieghevoli da conferenza, con una terza sedia sul palco, a distanza, che rimase tristemente vuota per tutto l’incontro. Quell’immagine, unita all’armonia singolare tra i due uomini, alla cortesia vigile di Hankins e all’attitudine scherzosa e maliziosa di Bond, ci aveva già conquistati. Quest’ultimo andò subito al punto, dicendoci che il teatro aveva attraversato tre crisi, e che noi stavamo vivendo la terza. Certo, ci sono state milioni di crisi, nel complesso, ma per amor di sintesi, disse, ne esistevano davvero tre: e noi eravamo testimoni, o partecipi, della Terza Crisi. Troppo fu detto allora per poterlo riassumere in questo post. Preferirei tornare in futuro su molti dei punti affrontati dal drammaturgo. In questa fase, volevo solo sottolineare quanto fosse per me sconcertante vedere un autore parlare, muoversi, scherzare, dipanare i suoi pensieri, agire — cioè mettere in scena la sua stessa idea di cosa sia una situazione, di cosa sia — anche se non usò mai la parola — un evento. Da lettore digiuno delle sue opere, ero quasi certo che la violenza e la sete di distruzione che percepivo attraverso le scene e i monologhi scelti dai miei compagni non sarebbero stati di mio gusto, e mi avrebbero lasciato indifferente. Ma dal momento in cui quell’ottantunenne londinese iniziò a parlare, fui conquistato. Non parlava dei Greci — cioè, sì, parlava anche di loro — né del Blitz, ma parlava da Atene, e certo il ragazzino adolescente del 1945 non era mai troppo lontano.