Cesseranno le lingue

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Esplorare il Pluralismo Linguistico e l'Unità di Dio

di Pierre Bergounioux

«Sciocco», disse, «ciò che semini non raccoglie forza, se non che prima è morto. Egli vuole che contempliamo l'immagine della risurrezione nel seme, che è prodotto dalla putrefazione. E in effetti, la cosa non sarebbe così difficile da credere per noi, se fossimo attenti come sarebbe richiesto a tanti miracoli che si presentano ai nostri occhi in tutte le parti del mondo. »

Calvino, Istituzione della religione cristiana (1559)

«Qui, più che in qualsiasi altro campo, ogni lingua contiene [...] un sistema di concetti che, proprio perché si toccano, si uniscono e si completano nello stesso linguaggio, formano un tutto le cui diverse parti non corrispondono a nessuna di quelle del sistema delle altre lingue, con l'eccezione, e ancora, di Dio e dell'Essere, del sostantivo e del verbo. Perché anche l'assolutamente universale, anche se al di fuori del regno della particolarità, è illuminato e colorato dal linguaggio.»

Friedrich Schleiermacher, Sui diversi metodi di traduzione (1813)

«Ci sono due modi di perdere se stessi: con la segregazione murata nel particolare o con la diluizione nell'universale. La mia concezione dell'universale è quella di un universale ricco di tutto il particolare, ricco di tutto il particolare, l'approfondimento e la coesistenza di tutti i particolari.»

Aimé Césaire, Lettera a Maurice Thorez, (1956)

Introduzione

I. Da Babele a Pentecoste

A. L'esegesi teologica: la creazione, la dimensione relazionale, il significato storico

ha. Genesi 9 – Il Diluvio

b. Genesi 10 – La Tavola dei Popoli

c. Gen 11 – La Torre di Babele

d. Atti 2:9-13 – Pentecoste

B. Letture sociolinguistiche di Babele

a. Patrick Sauzet e la "lingua immolata"

b. Cesare e Dio (Mc 12,17; Mt 22,21; Luca 20,25)

c. Caino e Abele

d. Linguaggio dei poveri

C. Riformulazione della domanda e tematizzazione

a. Violenza, potere e dominio

b. Lingua di Cesare

c. Il carattere relazionale e il reale come requisito

d. I molti contro l'idolatria

e. Incarnazione e storia

f. L'Universale e la Legge dell'Amore

II. Lingua e teologia: il rapporto tra la parola e le lingue

Ha. Lo statuto teologico delle lingue in rapporto alla parola

B. L'ordinamento delle lingue a Dio

Distinguere tra Logos e Linguaggio

b. Dono del significato e del linguaggio

c. Lo Spirito

1. Lo spirito personalistico: i carismi

2. La mente naturalistica: l'organo formativo del pensiero

3. Lo spirito pluralistico: l'effusione

III. Universalismo o comunione?

Ha. Un linguaggio comune o una conversazione comune?

B. L'universalisme

1. Progettazione unitaria

4. Particolarismo occidentale

C. Cattolicità

IV. Il prossimo: tra lo straniero come "sfida teologica" e il "fratello come grazia"

A. Essere l'estraneo di se stessi

B. La funzione profetica

C. Lasciarsi distrarre

ha. Il modello althusseriano

b. L'operatore Tutto

B. Il cristianesimo come anti-modello

ha. Il rifiuto di ciò che già esiste

b. La possibilità di essere deviati

c. L'autolimitazione del potere di Dio

C. "Fratello come grazia"

V. Creazione e speranza

A. Escatologia, universalismo ed ecumenismo

ha. Universalismo escatologico

B. Faccia a faccia: autolimitazione o autotrascendenza di Dio

ha. Faccia a faccia

b. L'autolimitazione di Dio

c. L'autotrascendenza di Dio e il divenire di Dio

C. Lo spostamento della speranza

Conclusione

Bibliografia. 85

 

Introduzione

 

Le narrazioni bibliche tradizionalmente utilizzate per affrontare la questione della lingua si limitano a menzionare le lingue e a giustificare l'origine della loro diversità. Proprio il pluralismo linguistico e la variazione linguistica[4] sono i concetti chiave di questa ricerca, che si propone di esaminare le implicazioni teologiche della questione delle lingue minoritarie.

 

La nozione di lingua minoritaria

           

Per lingue minoritarie si intendono le lingue che sono ridotte allo status di lingue minoritarie in un territorio che è il loro territorio storico di estensione[5]. Ci si avvicina così a un pluralismo linguistico inteso non come convivenza di molte lingue, in particolare lingue associate a stati e stereotipi nazionali ormai diffusi a livello globale, ma a un pluralismo linguistico universalmente legato alla persistenza delle lingue indigene anche a dispetto delle forze omogeneizzanti (il mercato, le politiche statali, la strategia di avanzamento sociale in particolare). Queste lingue, che fino a pochi decenni fa potevano costituire la lingua maggioritaria di interi settori della società, e che in breve tempo sono state ridotte al rango di lingue in via di estinzione, ci sembrano ricche di un insegnamento particolare, di un singolare esempio per la teologia, cioè per il campo di studi che mira a riaffermare nel tempo presente la pienezza del messaggio cristiano.  il Vangelo.  Più di ogni altra cosa, le lingue minoritarie non sono pura astrazione. Hanno un nome, un volto, un luogo. Questi sono i nomi, i volti e i luoghi delle persone incontrate, registrate e talvolta frequentate per decenni.

 

Pluralismo linguistico e pluralismo religioso

 

Il parallelo tra diversità religiosa e diversità linguistica è antico. Per il periodo moderno, può essere fatto risalire a Bibliander, successore di Zwingli come professore al Grossmünster di Zurigo e autore della prima edizione latina del Corano[6]. Nel XX secolo, il pluralismo religioso ha assunto l'aspetto di una sfida per la Chiesa e per la teologia, concretizzandosi nel dialogo religioso. Raimon Panikkar sottolinea il parallelo tra pluralismo religioso e diversità linguistica, e mostra che è "assurdo dire che una lingua è più perfetta di un'altra",[7] situando così la questione all'intersezione tra lingue e religioni: "Non possiamo confrontare lingue diverse (religioni) al di fuori della lingua (religione), e non c'è lingua (religione) che sia al di fuori delle lingue concrete (religioni)".[8]Tag: Come si vede, la teologia non si è astenuta dal pensare al pluralismo religioso in termini linguistici. Al contrario, pensare al pluralismo linguistico in termini teologici rischia di affinare ulteriormente lo specchio offerto al pluralismo religioso.

 

Approccio al pluralismo sociolinguistico e religioso

 

Abbiamo scelto di condurre la nostra ricerca seguendo due grandi riflessioni legate al nostro argomento: quella del teologo ermeneutico Claude Geffré ci aiuterà a individuare i punti di intersezione tra la teologia delle religioni e la diversità linguistica, mentre utilizzeremo le analisi di Patrick Sauzet per accedere a una lettura sociolinguistica delle Scritture. Il linguista e specialista dell'occitano offre un'opera nozionistica e concettuale che affronta temi teologici (le nozioni di "lingua nuda", [9]di "lingua uccisa", di una Babele come simbolo di indifferenziazione), e ci permetterà anche di considerare, nel corso di questa ricerca teologica, la questione del pluralismo linguistico attraverso l'esempio concreto di una lingua minoritaria,  occitano, che offre una certa trasparenza concettuale[10].

 

Problematico

 

Mentre la sociolinguistica e la teologia non hanno ancora inquadrato le condizioni per la loro discussione – e forse non lo faranno mai – la questione delle lingue minoritarie è all'intersezione di diverse teologie contemporanee: le teologie della liberazione, le teologie del processo, le teologie contestuali e persino quella che la teologa coreana-americana Grace Sun Kim chiama una teologia della visibilità[11]. Ci proponiamo, sulla base di un'esegesi teologica, di esaminare le ramificazioni scritturali e teologiche di questo plurale, e la dignità di questa locuzione: "lingue". L'ostacolo maggiore sta in una lettura di Babele ancora spesso punitiva (Gen 11,1-9), alla quale sono legate anche le nozioni di universale (la lingua prebabeliana intesa come lingua universale) e di assoluto (tanto per la ricerca degli uomini quanto riecheggia il racconto, sia per la reazione di Dio che sembra voler rimanere inaccessibile). L'inclinazione della teologia – ma anche della filosofia – ad affrontare più facilmente la questione del linguaggio rispetto a quella delle lingue si aggiunge al problema: l'approccio attraverso il linguaggio, inteso come nozione astratta, tende a offuscare la comprensione delle lingue nella loro concretezza. Le lingue sarebbero solo espressioni contingenti. Soffermarsi troppo a lungo su di essa aprirebbe la strada al relativismo[12].

A favore dell'approccio linguistico, tuttavia, va notato che la lettura punitiva di Babele non è necessariamente quella della teologia stessa. Allo stesso modo, la teologia cristiana sostiene la figura di un Dio personale e relazionale, contravvenendo così al concetto di assoluto[13]. Lungi dall'astrazione, il cristianesimo si presenta come una religione dell'incarnazione. In una tale logica, i "linguaggi" potrebbero essere, se non una nozione privilegiata, almeno una nozione identificata come tale?

 Le teologie sopra menzionate hanno tutte in comune il fatto di enfatizzare l'azione dello Spirito e di aver sviluppato una forte pneumatologia. Pur minacciate di estinzione e che presentano le fattezze di venerande reliquie, le lingue minoritarie esprimono una disinvoltura, una vitalità nel cogliere la realtà, nel giocare e nel ridere, che ricorda lo Spirito che "unisce cielo e terra, penetra e vivifica ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutto",[14] in un'articolazione del mondo e del reale che permette di "superare il dualismo della materia e dello spirito".[15] È già l'esperienza intima di ogni parlante di qualsiasi lingua, attraverso la lingua, l'esperienza di una relazione intima e sfuggente con una dimensione autonoma. Questo legame tra le lingue e lo Spirito, sommato all'enigmatico intervento divino a Babele, ci invita a chiederci come sono ordinate le persone della Trinità, dello Spirito e del Padre, ma anche del Figlio. 

 Questa comunità di tre persone, una diversità così particolare, è una lezione speciale per la diversità che stiamo esaminando?  Le lingue minoritarie, le lingue che definiscono i contorni di una particolare comunità, la comunità linguistica, ed esprimono una certa solidarietà con il passato, possono essere legate a questo principio propulsore che cerca di generare relazione e comunione?

In secondo luogo, le lingue ci invitano a rivisitare, attraverso la nozione di pluralismo, la questione dell'uno e dei molti, e, a partire dal fatto variazionale, la questione dell'uguale e dell'altro. In effetti, nonostante il pluralismo o la variazione, la lingua rimane una, e i dialetti stessi mantengono i loro contorni mentre coprono discorsi che sono essi stessi mutevoli.

Infine, qual è il futuro delle lingue considerato dal punto di vista escatologico? Da una parte, la Parola ci invita a rinunciare alla nostra pietà familiare (Mt 8,22; Mc 10,39), a ciò che è il lievito della sedizione, per concentrarsi su ciò che contribuisce a un progetto, l'unità a cui siamo chiamati (Gv 17,21). D'altra parte, quando lo Spirito soffia, ci chiama a lavorare. Ciò che resiste, ciò che si esprime con la resistenza dei linguaggi che le seduzioni del mondo hanno chiamato nei secoli a rinnegare, è il rifiuto fondamentale non solo di spegnere una luce, ma anche di convalidare un'ingiustizia. Non arrendersi è ricordare con Gesù messo alla prova dal tentatore, figura etimologica della dispersione, che sta scritto: «Davanti al Signore tuo Dio ti prostrerai e a lui solo adorerai» (Mt 4,5-8; Deuteronomio 6:13; 10,20).

 

Annuncio del piano

 

Ci avvicineremo dapprima ai testi di Genesi 9-11 e Atti 2:1-13 attraverso la recente esegesi storico-critica, poi la sociolinguistica, prima di proporre una tematizzazione teologica degli elementi incontrati. Ciò ci condurrà a interrogarci ulteriormente sulle questioni della diversità e della variazione linguistica, prima attraverso il binomio Logos/Spirito (Capitolo II), poi attraverso la nozione di universale (Capitolo III), prima di interrogarci sulle implicazioni teologiche del fatto linguistico attraverso la nozione di prossimo (Capitolo IV); e, infine, la dinamica tra creazione e speranza (Capitolo V).

 

Nota 1 – Un rinnovato interesse per la questione linguistica?

 

La questione del linguaggio non è assente dal dibattito che anima la vita della Chiesa, e si potrebbe obiettare, anche se timidamente, che la questione è un po' attuale. Il rinnovamento del Patto delle Catacombe della Chiesa Serva e Povera all[16]'interno del cattolicesimo romano portò alla ribalta la nozione di diversità linguistica, che a prima vista non era stata menzionata così chiaramente dalle teologie della liberazione fino ad allora. Il testo è stato firmato da un gruppo di vescovi partecipanti al Sinodo per l'Amazzonia, che si è svolto dal 6 al 27 ottobre 2019. In essa, i Padri sinodali firmatari si impegnano in particolare a "rinnovare [...] l'opzione preferenziale per i poveri, in particolare per i popoli indigeni, e con loro, per garantire loro il diritto di essere protagonisti nella società e nella Chiesa; Aiutali a preservare le loro terre, le loro culture, le loro lingue e le loro storie, le loro identità e le loro spiritualità. Crescere nella consapevolezza che queste devono essere rispettate a livello locale e globale e, di conseguenza, promuovere con tutti i mezzi a nostra disposizione che questi popoli indigeni siano accolti su un piano di parità nel concerto globale di altri popoli e culture. [17] Anche l'esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco, intitolata "Querida Amazonia", affronta la questione delle lingue in questi termini: "Di fronte a un'invasione colonizzatrice dei mass media, è necessario promuovere comunicazioni alternative per i popoli indigeni nelle loro lingue e culture, e che i soggetti indigeni siano presenti nei media esistenti".[18] C'è stato un campanello d'allarme.

 

Nota 2 – Teoria della cultura e teologia protestante

 

Dovremmo cercare il senso nella diversità, nel pluralismo, a rischio di arrivare a una teologia della diversità che sarebbe una theologia naturalis in nuove vesti? L'attenzione rivolta alle mediazioni culturali ha un corrispettivo teologico. Ciò si riflette nella Teologia sistematica di Paul Tillich e nella distinzione che egli introdusse nella teologia occidentale tra il "principio protestante" e la "sostanza cattolica". Claude Geffré presenta la distinzione tilllichiana come "il rifiuto di identificare qualsiasi elemento della realtà umana o storica con Dio [qualificato come 'principio protestante'], e la 'sostanza cattolica', [...] affermando la presenza spirituale di Dio in tutto ciò che è".[19] Può la teologia protestante affrontare la questione da un punto di vista sistematico, diverso da un punto di vista contestuale? Può la teologia protestante dire che con «l'effusione dello Spirito del Risorto a Pentecoste, è lecito pensare che la pluralità delle lingue e delle culture sia necessaria per tradurre la multiforme ricchezza del Mistero di Dio?».[20] Ovviamente la teologia protestante può dirlo, e non esita a dirlo, come vedremo in particolare con Amos Yong.

 


I. Da Babele a Pentecoste

 

Fin dai primi versetti della Genesi, il lettore della Bibbia si trova di fronte a un Dio che parla. Se questo Dio che parla solleva implicitamente la questione della preesistenza del linguaggio, questa non è a priori la questione che questi stessi testi si propongono di affrontare. Né questi testi trattano dell'accesso umano al linguaggio: "Le narrazioni bibliche non specificano un dono del linguaggio all'uomo. Senza dubbio immaginano che l'uomo la condivida con Dio e con gli animali. [...] Così, secondo il racconto biblico, in origine c'era un linguaggio comune che era compreso dagli uomini, da Dio e dagli animali. [21] Che Dio parli, come il linguaggio sia giunto all'uomo, niente di tutto ciò motiva la scrittura dei racconti che compongono la prima parte della Genesi (Gen 1-11). Notiamo, tuttavia, l'idea implicita di un linguaggio comune agli animali, agli uomini e a Dio. Così, nel luogo comune della polemica contro le lingue minoritarie – quella che erroneamente trasforma queste lingue in discorsi rozzi e sgrammaticati che i loro parlanti usano per prendersi cura dei loro animali – il mito biblico ci obbliga a reintrodurre una persona, e non ultimo, Dio. Ma questi testi possono fornire un fondamento teologico per le lingue minoritarie?

 

A. L'esegesi teologica: la creazione, la dimensione relazionale, il significato storico

 

Prima di affrontare l'esegesi teologica di testi che ci sembrano rilevanti per l'approccio teologico alle lingue minoritarie, ricordiamo due elementi che riguardano il contesto in cui i testi sono stati elaborati. Il primo elemento di contesto è, tra la diversità teologica della Bibbia ebraica, la teologia della creazione specifica dei primi capitoli della Genesi e del Deutero-Isaia. La teologia della creazione pone l'accento sulla dimensione relazionale: le varie narrazioni della creazione offerte dall'Antico Testamento sono occasioni per "mostrare il carattere divino nei suoi vari aspetti, ma anche la risposta umana che viene richiesta in cambio".[22] Il secondo elemento di contesto beneficia dei recenti contributi delle scienze bibliche alla storia del Vicino e Medio Oriente antico in termini di queste stesse storie della creazione. Questi ultimi hanno meno la vocazione di spiegare metafisicamente l'origine del mondo, meno di spiegare uno stato di cose (narrazioni eziologiche) che di dire qualcosa sul presente e di coinvolgere il lettore in connessione con la situazione del tempo presente. Ciò che Mattia Albani sottolinea a proposito del Deutero-Isaia vale anche per Gen 1-11: "La teologia della creazione nel Deutero-Isaia non è fine a se stessa, ma un mezzo per provare la potenza di YHWH sulla storia".[23]Tag: Ricordiamoci a questo punto che la teologia della creazione che sta alla base dei testi che ci accingiamo a studiare non è esattamente la teologia di una creatio prima o di una creatio originalis, che di solito si legge in essi. YHWH agisce nella storia, nel tempo presente, e la sua azione è anche un'azione politica. Le immagini evocate mostrano un Dio che agisce, e indicano un programma, lo scopo di questa azione. La salvezza e la giustizia assumono così una risonanza speciale in questa teologia della creatio perpetua, che in alcuni casi può arrivare fino all'idea di una nova creatio (Isaia 45:1-8). Notiamo, infine, l'incontro tra le nozioni di potenza e di storia, attraverso Babele, che rivela la potenza di un'umanità la cui violenza si è già manifestata (Gen 4,9).

 

            ha. Genesi 9 – Il Diluvio

 

Recenti ricerche sottolineano che la storia di Babele deve essere letta nel contesto, in connessione con il capitolo che la precede nella Bibbia ebraica, vale a dire il cosiddetto testo della "tavola delle nazioni". Ma l'evocazione del linguaggio comune agli uomini e agli animali ci invita a tornare indietro di un capitolo e a risalire al diluvio. Come sottolinea Thomas Römer, "il diluvio provoca anche una cesura, poiché, dopo il diluvio, l'umanità si differenzierà e parlerà diverse lingue".[24] Una di queste rotture che si è verificata con l'alluvione è stata l'introduzione del cibo a base di carne. Il racconto della creazione inizialmente immagina una creazione pacifica: il sesto giorno, "Dio disse: 'Io vi do ogni erba che porta seme in tutta la terra, e ogni albero da frutto che porta seme; sarà il tuo cibo. A ogni animale della terra, a ogni uccello del cielo, a ogni cosa che brulica sulla terra e ha alito di vita, io do in cibo ogni erba verde. E così avvenne" (Gen 1,29-30; NBS). Il diluvio porta a un rapporto molto diverso con gli animali: "Tu infonderai timore e terrore in ogni animale della terra e in ogni pesce del mare: ti sono stati consegnati. Tutto ciò che brulica e vive vi servirà da cibo: come le piante, vi do questo. (Genesi 9:2-3; NBS). Mentre la storia della creazione aveva fino ad allora immaginato un'umanità vegetariana, la benedizione di Elohim all'uscita dell'arca fu accompagnata da un sinistro cambiamento per una delle tre parti coinvolte, che tuttavia condividevano ancora la stessa lingua. Per André Wénin, "pronunciando queste parole, Élohîm mostra che ora accetta che la violenza fa parte della realtà umana. E proprio come all'inizio aveva integrato gli elementi del caos primordiale nell'universo armonioso (vedi 1,3-10), rimodellerà il suo progetto iniziale per fare spazio a questo nuovo fattore di caos, che questa volta viene dall'umanità. [25] Sebbene la differenziazione delle lingue abbia avuto luogo dopo il diluvio, va notato che non sembra essere una concessione alla violenza o al caos.

Va anche notato che la nozione di linguaggio è ancora indistinguibile da quella di parola, mentre entrambe vengono confuse con quella di cibo: «Il lettore della narrazione biblica non deve aspettare molto per trovarsi di fronte alla questione del cibo. Questo è l'argomento di due discorsi divini, entrambi rivolti agli uomini: l'ultima parola della grande storia della creazione nel capitolo 1 della Genesi e il primo comando dato da Yhwh Elohîm nel Giardino dell'Eden nel capitolo 2. In entrambi i casi, il Creatore nutre gli esseri umani, anche se non senza restrizioni. [26] Torniamo al nostro rapporto tripartito e monolingue, animale-umanità-Dio: l'umanità si trova in una situazione di dipendenza alimentare dal suo Creatore e la sua disposizione al male evocata in Gen 8,21 è ora registrata. Dio interviene ponendo dei limiti: «Non mangerete carne con la sua vita, cioè con il suo sangue» (Gen 9,4), e l'istituzione di una legge di taglio: «Chiederò ad ogni uomo la vita di un uomo che è suo fratello» (Gen 9,5). La confusione dei linguaggi non ha nulla a che vedere con la malignità umana evocata, con l'intrusione della violenza. Al contrario, Babele e l'introduzione del pluralismo linguistico si inscriveranno nella logica dei confini stabiliti da Elohîm.

Poi, il capitolo 9 ribadisce che l'uomo è stato fatto a immagine di Dio (Gn 9,6b). Il testo insiste su questo in modo singolare, poiché l'imago Dei è invocata per giustificare la pena capitale: "Chiunque sparge il sangue dell'essere umano, per mezzo dell'essere umano il suo sangue sarà versato. Poiché a immagine di Dio è stato fatto l'uomo. (Genesi 9:6). In altre parole, la violenza non abolisce l'imago Dei, ma invoca giustizia. Ricordando nel capitolo 1 della Genesi l'omissione della frase "a nostra somiglianza" tra i versetti 26a e 27, André Wénin commenta: "I Padri della Chiesa l'hanno già detto: se l'immagine di Elohim è data all'essere umano, non è ancora somiglianza, e il suo primo compito sarà quello di assomigliare all'immagine così depositata in lui. Si chiarisce così il senso del fare: l'essere umano è chiamato a collaborare con il suo fare al compimento di colui che Elohîm ha creato a sua immagine. [27] Il linguaggio, come sottolinea Thomas Römer, non gioca ancora un ruolo discriminante. Il linguaggio, comune agli animali, agli esseri umani e a Dio, non è ciò che rende l'umanità a immagine di Dio. Chiamati ad assomigliare a Dio, gli esseri umani non sono chiamati a trovare in un'unica lingua la via per quella somiglianza. Meglio ancora, la concezione di un potere in relazione al linguaggio sarebbe in contrasto con una narrazione della creazione che ci invita a vedere un Creatore «forte nella propria maestria[28]», che non solo pone limiti alle sue creature, ma limita se stesso: il settimo giorno «sottolinea [...] la dolcezza nel cuore dell'immagine di Dio. Una legge di dolcezza che corregge le proiezioni di un Dio travolgente, confuso con il nostro sogno di superpotenza, vale a dire di un Dio a nostra immagine. "[29]. Una fantasia delle origini che ricorresse al mito della lingua unica troverebbe quindi, sulla base dell'esegesi biblica, diversi ostacoli importanti. (1) Non poteva avvalersi di un privilegio peculiare all'uomo. L'unica lingua è comune agli animali, agli esseri umani e a Dio. 2) La sua stessa motivazione, tradendo un desiderio di superpotenza, lo denuncia come un desiderio idolatrico. È la creazione di un linguaggio che è a immagine dell'uomo, e non della parola ricevuta e condivisa. (3) Il principio stesso della creazione è quello di ordinare, stabilendo limiti e confini. Il mito biblico, dunque, non è il mito giusto da invocare per denunciare un pluralismo linguistico presentato come fonte di caos e disordine. Ancor prima di arrivare alla storia di Babele, una lettura del genere sarebbe un malinteso.

Allo stesso modo, le lingue minoritarie sono talvolta attaccate come rifugio di particolarismi, di una certa feticizzazione del passato, insomma di una fantasia delle origini. Tuttavia, se c'è una fantasia delle origini, sembra avere molto più a che fare con la fantasia di un'unica lingua, preferibilmente quella della patria, e non con un pluralismo iniziale che i suoi deprezzatori non hanno problemi a presentare come un'identità o una frammentazione settaria. Precisamente, per il biblista, "non c'è teoria sull'origine di questa lingua unica; si potrebbe dire che, secondo l'autore sacerdotale, ha la sua origine nella parola di Dio Creatore. [30] Se, fin dai primi versetti della Bibbia, Dio parla, è perché la Parola è la prima.

 

         b. Genesi 10 – La Tavola dei Popoli

 

Più precisamente, che dire del capitolo che precede immediatamente la storia di Babele, che Thomas Römer e Albert de Pury ci invitano a non separare da quest'ultimo? Thomas Römer ci ricorda che prima di Babele (Gen 11), c'è Gen 10 e la distribuzione delle nazioni da Sem, Cam e Jafet, cioè i tre figli di Noè: "Ciascuno aveva la sua terra secondo la sua lingua (אִ֖ישׁ לִלְשֹׁנֹ֑ו) e la sua nazione secondo la sua clan" (Gen 10,5b; TOB). L'esegeta David Carr sottolinea in una nota a piè di pagina lo svantaggio di rendere la parola גּוֹי come "nazione" a causa del suo significato moderno, e preferisce la parola "popolo". Stiamo seguendo questa raccomandazione[31]. Il racconto della «tavola delle nazioni» (Gen 10) «divide l'umanità in tre gruppi legati ai tre figli di Noè, secondo la loro posizione geografica e la loro lingua» (vv. 5, 20, 31).[32] Questa divisione è resa esplicita dall'ultimo versetto della pericope stessa: "Questi sono i clan dei figli di Noè, secondo la loro genealogia, nei loro [popoli]. Fu da loro che [i popoli] si sparsero sulla terra dopo il diluvio. (Genesi 10:32; NBS)

Se, come sottolinea il biblista Markus Witte, la struttura del testo «riflette sommariamente una differenziazione socio-geografica secondo le famiglie (mišpāchāh), le lingue (lāšôn), i paesi ('æræṣ) e i popoli (gôj) (cfr Gen 10,5; Genesi 10:20; Gen 10,31)",[33] non è possibile scorgervi un anacronistico tentativo di sociolinguistica. Al contrario, come insiste David Carr nel suo recente commento: "Un esame più attento mostra che il capitolo sembra composto per resistere ai tentativi di leggerlo come una panoramica dei popoli conosciuti, anche se parti di esso – in particolare le sue parti non sacerdotali – sono problematicamente collegate a discorsi successivi sulla schiavitù e sulla razza".[34] Per dirla in un altro modo, Genesi 10 mette in relazione la diversità delle culture con la diversità delle lingue, e lo fa in un modo che è di particolare interesse per la teologia: "Dovrebbe essere chiaro che, contrariamente alla descrizione di Genesi 1 dello sviluppo di varie specie vegetali e animali, gli esseri umani di Genesi 10 non sono affatto  rappresentati come distinguibili l'uno dall'altro per tipo fisico o specie [...]. Tutti portano implicitamente l'immagine di Dio tramandata di generazione in generazione (cfr Gen 5,1-3), ma al tempo stesso si distinguono socialmente l'uno dall'altro per una mescolanza di caratteristiche geografiche, etnico-nazionali e linguistiche (Gen 10,20.31 e la forma originale di 10,5). [35] Così la Tavola dei Popoli dice già che, nonostante le analogie, l'ecolinguistica e l'ecoteologia non sono riducibili l'una all'altra. Per quanto riguarda la questione dell'Uno e dei molti, il molteplice umano non è presentato come appartenente alla natura.

Anche questo è un limite alla teologia naturale. La diversità umana è voluta da Dio, anche se il testo, e più in generale Gen 1-11, porta tracce di tensioni tra, da un lato, i racconti postdiluviani della "divinità (YHWH) che causa la dispersione umana" (פוץ hiphil Gen 11,8a, 9b; cf. anche נפץ Gen 9,19)"[36] e, d'altra parte, il racconto di un Dio "all'origine di questo processo in Gen 10* dando agli uomini la sua benedizione e incoraggiandoli a moltiplicarsi (Gen 1,28; 9,1.7)"[37] Di fronte a queste contraddizioni, Gen 10 appare come il meno motivato teologicamente o politicamente, il più imparziale[38]. Già in Genesi 10, ogni popolo aveva la propria lingua; ciò corrisponde alla volontà divina: "Per P, la diversità delle lingue fa apparentemente parte dell'umanità post-diluviana. C'è fin dall'inizio e non sembra porre un problema particolare".[39] Il pluralismo linguistico trova qui un privilegio teologico, cioè una giustificazione scritturale, di cui il pluralismo religioso non gode, poiché la diversità religiosa non è menzionata.

 

         c. Gen 11 – La Torre di Babele

 

Passiamo ora a Babele. Albert de Pury non usa mezzi termini: "Un narratore, un editore, o anche un adattatore, non poteva accontentarsi della visione meravigliata, e comunque spensierata, che la scrittura sacerdotale aveva dato della diversità dei popoli e delle loro lingue.  Per rimediare a ciò, ha anche introdotto la storia della costruzione della Torre di Babele. [40] Questa versione stupita e spensierata è la versione sacerdotale di Genesi 10, e quindi sarebbe appropriato leggere Genesi 11 come una reazione negativa a questa meraviglia e noncuranza. Così, nel racconto di Babele, «la molteplicità delle lingue è interpretata non come il risultato di una struttura ad albero naturale del linguaggio umano, ma come la conseguenza di un disturbo imposto come misura preventiva o punitiva (v. 1.9a). Allo stesso modo, la dispersione dei popoli nel mondo non è più intesa come una risposta a un invito a "riempire la terra", ma come un'espulsione inflitta da YHWH (vv. 4b.8a.9b). [41] Lo stesso scrittore sarebbe intervenuto nel capitolo precedente per correggerne la placidità: "Come mostrano recenti analisi (Witte, de Pury, et al.), questi frammenti non sono da attribuire a un antico jahvista; sono aggiunte e correzioni post-P, specialmente in Gen 10,8-13, 15-19, 21, 24-25, che hanno lo scopo di creare un legame con la maledizione di Canaan in Genesi 9 e la Torre di Babele in Genesi 11. In questo modo, gli estensori cercano di integrare la tavola sacerdotale delle nazioni in un nuovo contesto che enfatizzi le differenze tra i popoli e comprenda la diversità delle lingue come una sanzione divina. »[42]

Ricordiamoci che fino ad allora la questione della lingua non si poneva. Con questo intervento post-P, emerge quella che già non è una semplice teologia del linguaggio, ma un'ideologia del linguaggio[43]. David Carr intitola il suo commento a Genesi 11:1-9: "Prevenzione divina del potere collettivo umano attraverso la confusione linguistica e la dispersione degli esseri umani". Il potere di cui si è parlato finora è quello della divinità, un dio capace di autolimitarsi. La malignità dell'uomo è stata enfatizzata, e le concessioni risultanti da questa osservazione sono state accompagnate da limitazioni. Ciò che emerge con Gen 11,1-9 è il potere dell'uomo, un potere che Carr descrive come collettivo. Se segue il filo dell'imago Dei, il lettore disattento potrebbe pensare che è in questo potere collettivo che l'umanità è a immagine di Dio. Non è infatti l'umanità che qui si limiterà, ma Dio che dovrà intervenire. Interviene contro il potere collettivo dell'uomo in due modi, la confusione delle lingue e la dispersione degli esseri umani.

A questo proposito occorre distinguere tra le due nozioni, quella di σύγχυσις[44] e quella di διασπορά. Il primo, σύγ-χυσις può essere tradotto letteralmente come con-fusione, mentre δια-σπορά significa dispersione. Tuttavia, se si tratta davvero di due fenomeni diversi, è la confusione delle lingue che porta alla dispersione degli esseri umani. David Carr ripristina nella sua traduzione le forme rispettivamente attiva e passiva del verbo פוץ già menzionato sopra. È quindi giusto che la NBS traduca il v. 11.4bc "facciamoci un nome, affinché non possiamo essere dispersi su tutta la terra", mentre l'inglese di Carr rende ancora meglio il causativo (hiphil) del v. 11.8a "E YHWH li fece disperdere di là sulla superficie della terra".[45] La strategia umana ha quindi l'effetto diametralmente opposto. Tuttavia, la dispersione non è una conseguenza diretta dell'azione divina, almeno a Babele: "Questo processo di dispersione specificamente umano è anticipato dall'ansietà degli uomini per la propria dispersione sulla terra".[46] Riassumiamo. Nel capitolo 10 ("La tavola dei popoli"), la dispersione umana – e quindi la diversità linguistica – è la conseguenza dell'ingiunzione di Dio di moltiplicarsi. Nel capitolo successivo, la dispersione umana continua. Non è un fenomeno nuovo, ma un fenomeno che sta acquisendo una dimensione umana. La dispersione umana non è più solo una conseguenza del "moltiplicarsi", ma anche una conseguenza dell'ansia umana per la propria dispersione.

Al giorno d'oggi, la preoccupazione degli esseri umani per la loro dispersione è pari alla preoccupazione di alcuni di noi per una standardizzazione, una riunificazione degli esseri umani che non sarebbe per iniziativa di Dio. Il testo di Babele è stato quindi letto come una critica dell'imperialismo. Questa interpretazione è antica, risale addirittura al periodo del Secondo Tempio[47]. Tuttavia, questa interpretazione sarebbe più esegetica che esegetica e, secondo i commentatori, deve essere abbandonata: "Sebbene il racconto mostri indicatori di composizione quando Giuda era sotto il dominio mesopotamico [...], il testo stesso non riflette né critica il potere imperiale".[48] Insistiamo su questo nella misura in cui, come vedremo più avanti, non solo i sociolinguisti, gli stessi parlanti di lingue minoritarie, ma anche i promotori della diversità, hanno potuto avere una lettura positiva di Babele come critica di un certo imperialismo. Una parte dell'esegesi contemporanea ci invita ad essere più cauti. Il testo non dovrebbe essere usato per illustrare la misura in cui "gli imperi coloniali hanno danneggiato le comunità linguistiche indigene o enfatizzando la potenziale minaccia ai valori tradizionali posta da una certa forma di relativismo etico".[49] La narrazione ci inviterebbe a mettere la volontà di potenza e il miglior umanesimo, imperialismo bellicoso e universalismo pacifista?

La prudenza è ancora giustificata se leggiamo la storia di Babele come una critica, se non all'omogeneizzazione delle culture, almeno alla costituzione di una comunità globale. Non è senza ragione che David Carr conclude il suo commento alla narrazione come segue: "Guardando al futuro, ci si potrebbe chiedere se il profondo scetticismo di questo passaggio nei confronti della cooperazione umana globale non possa essere particolarmente problematico in un momento come il nostro, in cui questioni centrali, come il cambiamento climatico,  esigere che la comunità globale trovi un linguaggio comune per affrontare le profonde sfide che incombono sulla vita attuale dei bambini umani in tutta la terra. [50] Di fronte alle sfide che l'umanità si trova ad affrontare oggi, la lezione di Babele sembra essere di grande sottigliezza, mettendo in guardia tanto contro i pericoli della standardizzazione quanto contro il dimenticare che, nonostante la sua dispersione, l'umanità conserva un passato comune – e un futuro comune.

Per essere fedeli al testo e all'apporto delle scienze bibliche, non si può ignorare anche la descrizione che esso fa di una "divinità preoccupata di conservare le sue prerogative divine, anche a costo di turbare la comunità degli uomini".[51] Allora, cosa resta? Le letture, in particolare quella di teologia contestuale, "hanno dato contributi importanti, riequilibrando le letture passate della pericope come narrazione di delitto e castigo, portando sensibilità sia alla complessa rappresentazione degli sforzi dell'umanità sia al fatto che la risposta di YHWH qui non è presentata come una punizione degli esseri umani per la loro disobbedienza".[52] Se la confusio linguarum è la causa della dispersione degli esseri umani sulla terra, non è una punizione derivante dalla disobbedienza. Fa parte di un processo di limitazione, di delineazione, comune al resto del testo di Genesi 1-11.

Alla fine, cosa possiamo ricordare? Sono rimasti forse almeno tre elementi: 1) il primo, menzionato dal commentatore, è che la narrazione invita a un riequilibrio permanente. È il riequilibrio dei poteri tra il Creatore e la sua creatura tanto quanto il riequilibrio delle interpretazioni, che vanno tutte al di là del significato del testo. 2) il secondo elemento, coerente con il significato dei racconti della creazione del Vicino e Medio Oriente antico, è che questo riequilibrio è da intendersi come contemporaneo ai lettori del mito. Il mito di Babele, come abbiamo già suggerito, non è tanto una narrazione eziologica che cerca di dire qualcosa sull'origine delle lingue, quanto uno strumento progettato per parlare ancora e ancora al presente. Non ci parla di un'epoca lontana, ma ha lo scopo di invitare i contemporanei a rivalutare nel presente le motivazioni egocentriche della divinità, il potere potenzialmente distruttivo dell'uomo, anche nelle sue intenzioni più belle, e infine la fondamentale ambivalenza del linguaggio (sacro e maledetto); 3) La terza è che questo riequilibrio non coinvolge il linguaggio, ma la pluralità dei linguaggi e la variazione linguistica. In quest'ultimo senso, le lingue sono esse stesse un mezzo di riequilibrio, una mediazione e, per di più, una mediazione divina. Infine, va notato che la sanzione divina, in quanto non avviene a causa della disobbedienza umana, non è retributiva. Lasciamo perdere per ora.

           

         d. Atti 2:9-13 – Pentecoste

 

Passiamo ora alla Pentecoste, e ricordiamo innanzitutto perché i due episodi sono spesso accostati: come sottolinea il commentatore Carl Holladay, la Pentecoste appare come un'inversione di Babele, sia perché Luca usa un linguaggio che ricorda Gen 11,1-9, ma anche perché a Pentecoste le lingue non si confondono più.  Ognuno, pur parlando nella propria lingua, comprende l'altro: "Dio annulla a Pentecoste ciò che è stato fatto a Babele".[53] Craig Keener lo vede come un "approccio che si adatterebbe certamente al tema di Luke della missione che trascende le barriere culturali e linguistiche".[54] Tuttavia, possiamo ancora leggere Atti 2 come un'anti-Babele alla luce dei recenti contributi dell'esegesi di Genesi 11?

La Pentecoste è la venuta dello Spirito. Ma che cos'è lo Spirito negli Atti? "Negli Atti, lo Spirito Santo è la presenza surrogata di Dio. Presentando lo Spirito come la presenza potenziante all'interno della chiesa, Luca rafforza il tema della guida provvidenziale. [55] Il termine inglese, empowering, ci permette di identificare la nozione di potere, un concetto chiave nelle narrazioni e nella teologia della creazione. In particolare, anche in questo caso, Dio interviene per mezzo delle lingue. Diciamo lingue, non lingue. A Pentecoste, il gruppo degli apostoli comincia a "parlare in altre lingue" (ἤρξαντο λαλεῖν ἑτέραις γλώσσαις; Atti 2:4b). E' un'analisi eccessiva enfatizzare l'uso di ἄρχομαι, tanto per cominciare? Certamente no: "Il racconto di Luca secondo cui la Pentecoste si presenta come un evento inaugurale".[56] E cosa si intende con questa eteroglossia (eterolalia)? Prima di addentrarci nella questione, notiamo che l'intervento divino spinge all'azione. Troviamo un movimento simile a quello che la sintassi ebraica ci invitava a vedere. Proprio come la confusio linguarum causò il διασπορά degli uomini, in Luca lo Spirito Santo spinge gli apostoli e i personaggi principali a parlare (Pietro in Atti 4:8; Stefano 6:5, 10 e 7:55; Agabo 11:28 e 21:11; Paolo in 13:9-11 e 20:23; Apollo 18:25). "Lo Spirito Santo non solo spinge le persone a parlare, ma dirige anche i loro movimenti".[57] Inoltre, lo Spirito «si riversa non solo sui rappresentanti debitamente costituiti, come gli apostoli, ma anche tra i credenti. A questa democratizzazione dello Spirito viene data grande importanza negli Atti. [58] Tuttavia, questo potere trova la sua espressione programmatica nel miracolo della Pentecoste, una manifestazione non del parlare in lingue[59] (glossolalia), ma in altre lingue (eteroglossia). La questione è se il "miracolo" stia nella comprensione reciproca a dispetto delle lingue, nel qual caso le lingue scompaiano, o se le lingue contribuiscano al miracolo.

Innanzitutto, il «miracolo», ciò che produce stupore, ciò che si manifesta come segno dell'intervento divino, non ha tanto a che fare con le lingue di fuoco che si separano l'una dall'altra e scendono sul gruppo riunito nello stesso luogo (At 2,3), quanto con lo stupore della folla attirata dal rumore: «La folla accorse e fu sopraffatta,  perché ognuno li sentiva parlare nella sua lingua" (At 2,6). Ciò che dal punto di vista del gruppo corrispondeva all'eteroglossia (parlare in un'altra lingua) divenne per la moltitudine lo stupore di sentirli parlare la propria lingua (ἤκουον εἷς ἕκαστος τῇ ἰδίᾳ διαλέκτ ῳ λαλούντων αὐτῶν; Atti 2:6b). Per permetterci di usare il testo, useremo qui il termine idioletto. La didattica delle lingue non ha dimenticato l'aggettivo ἴδιος o il lessico di Atti 2:1-13. Troviamo ἴδιος in ἰδίω–μα "peculiarità; idioma (peculiarità di una lingua)"[60] o ἰδιώ–της "mero individuo, in contrapposizione al funzionamento pubblico; quindi idiota (che è troppo peculiare)"[61] e infine ἰδιωτισμός "(1) il linguaggio proprio di un individuo; (2) l'idiotismo (un trucco peculiare di una lingua)."[62] In un certo senso, questa radice basterebbe a riassumere l'ambizione di questa tesi, vale a dire quella di concentrarsi non sulla lingua ma sui modi di dire, vale a dire tanto ciò che resiste alla traduzione[63] quanto ciò che  il traduttore può scegliere di mantenere della lingua di partenza.  Crediamo che la Pentecoste non riguardi la rimozione delle lingue a favore del messaggio, ma che il messaggio risieda anche nel rispetto di ciò che è unico in ogni lingua. Tra i versetti 4 e 6 il cambiamento di punto di vista è organizzato, non sulla base del possessivo (loqui eorum linguis), ma sulla base del riflessivo (lingua sua illos loquentes) e dell'alterità (la Vulgata traduce logicamente "loqui aliis linguis"). Il miracolo sta nel fatto che ognuno ha sentito parlare nel proprio dialetto, nella propria lingua. In termini sociolinguistici, la Pentecoste è in qualche modo la vittoria degli iperlocalisti. Il gruppo, sotto l'azione dello Spirito, parla in questi discorsi che Dante definisce così: "[discorso] al quale i fanciulli si conoscono, per l'azione del loro intorno, dal primo momento in cui cominciano a distinguere i suoni".[64] Cosa ci sarebbe di strano, infatti, in una città cosmopolita, soprattutto in tempi di pellegrinaggio, a sentir parlare lingue straniere?

C'è, ovviamente, una tensione nel testo. Il pubblico che accalca è descritto sia come residente a Gerusalemme (ε ἰς Ἰερουσαλὴμ κατοικοῦντες At 2,5), una precisione che sembra escludere i pellegrini[65], sia come originario di "tutti i popoli che sono sotto il cielo" (ἀπὸ παντὸς ἔθνους τῶν ὑπὸ τὸν οὐρανόν Atti 2:5). In generale, il brano descrive un doppio movimento, centripeto e centrifugo, l'uno corrispondente al raduno e l'altro alla missione.

 Qual è esattamente la situazione nel contesto dell'opera di Lucani, ma anche nel contesto storico in cui il kerygma si è manifestato? Innanzitutto, l'opera di Lucani, fedele ai canoni della storiografia antica, non è insensibile alla questione della linguistica. La verosimiglianza, principio tucideo[66], porta Luca ad attenersi a un certo realismo linguistico: «Nel discorso di Pentecoste (At 2,14-41) o nell'omelia al Tempio di Gerusalemme (At 3,17-26), Pietro usa il greco semitico, vicino a quello dei Settanta, [...] mentre Luca scivola sulle labbra di Paolo, in piedi in mezzo all'Areopago di Atene, un discorso di un classicismo atticizzante, pieno di ottavi e figure retoriche, e che sviluppa un'argomentazione bagnata di prestiti dai pensatori della Stoà. [67] Lo stupore della folla non solo si basa interamente sul fatto dialettale e sociolinguistico, ma viene spiegato così com'è: "Stupiti e stupiti, dissero: 'Non sono questi quelli che parlano tutti Galilei?' (Atti 2:6-7). La questione della diglossia[68] è sollevata anche da Keener: "Molto più problematico, Luca non fornisce alcuna implicazione che la diglossia fosse in vista o che ci si dovesse aspettare che i discepoli parlassero solo ebraico in questa o in qualsiasi altra occasione".[69] A proposito della Pentecoste, Carl Holladay ricorda che l'aramaico galileo è deriso nel Talmud attraverso la storia di un galileo "che va al mercato di Gerusalemme e chiede di comprare un amar. Il mercante rispose: "Stupido Galileo, vuoi comprare una cavalcatura (un asino = ḥamār)? Da bere (vino = ḥamar)? Cosa indossare (lana = ʿamar)? Abbastanza da essere usato per un sacrificio (un agnello = ʾimmar)?" "[70]. Infine, è necessario evocare un Gesù storico potenzialmente diglossico[71]. È quindi molto significativo che la questione della lingua parlata dal Gesù storico sia seguita da vicino dalla questione del suo possibile analfabetismo[72], riferendosi alla questione del rapporto tra la parola scritta e la cultura. Ancora oggi, si stima che il 70% delle colture mondiali siano orali[73]. Appartengono a quello che l'UNESCO definisce patrimonio culturale immateriale (ICH).[74] 

Infine, una dimensione della lingua è il senso di appartenenza a una cultura anche tra i non parlanti. Nel suo Gesù di Nazareth. Nella sua scoperta dell'uomo di Galilea, Jens Schröter sottolinea che: "Nonostante tutto, la coscienza di una propria ebraicità, nata al tempo dei Maccabei, centrata sull'Alleanza e sulla Legge, e di cui il Tempio di Gerusalemme era il perno, rimase viva, così come le tradizioni ebraiche risalenti a quel tempo, che si esprimevano negli scritti apocalittici e sapienziali".[75] Questa dimensione di ciò che appartiene a ciascuna persona o a ciascuna cultura, e che si esprime in modo particolarmente intimo nel linguaggio, non ci sembra estranea a ciò che dice il racconto della Pentecoste.

 

Pentecoste ed ecclesiologia

 

Se la Pentecoste è la realtà che fonda la Chiesa, questa realtà è vissuta e vissuta attraverso il pluralismo e la variazione linguistica. Il teologo e missiologo pentecostale Amos Yong si esprime in questo modo: "In effetti, il popolo ecclesiale di Dio è stato fondato dalla sola esperienza dello Spirito in mezzo alla pluralità e alla diversità delle loro lingue e lingue particolari nel giorno di Pentecoste (Atti 2). Lo stesso Spirito che ha reso possibile la comprensione interculturale e la κοινωνία all'interno della Chiesa primitiva è colui nel quale tutta l'umanità vive, si muove e ha il suo essere (At 17,28). [76] È quindi importante non abbandonare questa dimensione materiale, questa esperienza fondamentale dello Spirito, considerando le lingue come una mera astrazione al servizio dell'elaborazione teologica: «Da questa realtà ecclesiale che attraversa le lingue, le culture, lo spazio e il tempo nasce l'immaginazione pneumatologica – la capacità di cogliere lo Spirito, di parlare le lingue dello Spirito,  sperimentare la realtà dello Spirito e impegnarsi spiritualmente nella realtà – che è quindi intrinsecamente una sola nella sua pluralità e attraverso di essa. [77] Ciò che le lingue conservano di ciò che è loro peculiare, anche unico, non è un impedimento alla comunanza, ma anche una condizione per la comunanza. Non c'è condivisione se ognuno non porta in tavola ciò che ha. Inoltre, la κοινωνία non è una comunità ridotta a conquiste, in cui è comune solo ciò che inizia con la comunità, ma piuttosto una comunità universale in cui i propri beni sono messi in comune. Il mio è destinato a diventare il tuo. Questo non vuol dire che tutti si siano lasciati alle spalle ciò che era unico per loro al di fuori della comunità. Amos Yong sostiene qui i due estremi della questione: da una parte, una realtà ecclesiale che attraversa lingue e culture, e dall'altra, una realtà che non è una nonostante la varietà, ma la cui essenza (intrinsecamente) è quella di essere una "nella e attraverso la sua pluralità". La pluralità è qui presentata come uno dei modi di espressione dell'Uno.

Alla fine, Atti 2:11-13 permette una lettura favorevole alle lingue minoritarie? Va ricordato che tre o quattro lingue sarebbero bastate al gruppo dei 120 per capirsi: la koinè, l'aramaico, l'ebraico e forse il latino. La situazione non è quindi quella di una società monolingue. A questo contesto plurilingue si aggiungono il dialetto e la diglossia. Come per Babele, alcune interpretazioni hanno cercato di vedere un discorso antimperialista[78], ma anche in questo caso il testo resiste a tale interpretazione. Il messaggio della pericope è, senza dubbio, teologico. Essa mira a inaugurare una nuova era, quella della Chiesa, sotto la guida dello Spirito. Ciononostante, la Pentecoste appare ai commentatori, in modo convincente, come un'anti-Babele. Le lingue sono ancora una volta al centro di un processo avviato da Dio per agire nella storia e dagli uomini. Questa dimensione storica, inscritta nello stesso progetto lucano, presta particolare attenzione alle lingue e alla variazione linguistica non come progetto politico, ma per raggiungere la verosimiglianza richiesta dai canoni della storiografia antica. Sotto l'azione dello Spirito, il gruppo dei 120 si esprime in dialetti e lingue diverse, eppure si capiscono. Come accennato in precedenza, "possono parlare dialetti diversi, ma la loro lingua non è più confusa o confusa".[79] L'intercomprensione è un dono dello Spirito. O lingue che lo Spirito rende dialetti, dando loro accesso alla comprensione interdialettale. E poiché Dio abbonda nei suoi doni, questa intercomprensione raggiunge la perfezione più intima, dando a tutti la sensazione di ascoltare le sue parole. Forse ignorando la questione se l'empowerment debba essere inteso in Atti 2:4-11 come livellamento o annientamento dei confini culturali per proclamare la parola di Dio, o se si tratti di una rivalutazione di questi confini, la narrazione della Pentecoste insegna senza dubbio soprattutto che lo Spirito conduce alla proclamazione della Parola.  Non a dispetto delle qualità irriducibili delle lingue, ma proprio rifiutando di ridurre ciò che è proprio e unico in esse. La Chiesa, sotto l'impulso dello Spirito, non si fonda sull'abolizione dell'alterità, non su un proclamato rispetto dell'alterità, ma sul rendere l'alterità intesa come intelligibile e familiare.

           

B. Letture sociolinguistiche di Babele

 

Abbiamo visto che un'esegesi storico-critica non permette di fare dei testi araldi di lingue minoritarie, ma che la loro attenzione alle lingue piuttosto che alla lingua, la loro preoccupazione di affrontare la questione del molteplice e della variazione, l'enfasi posta sull'aspetto relazionale della creazione e dell'azione divina come intervento nel presente,  Questi quattro elementi sosterrebbero, se necessario, una lettura contestuale allegata al multiplo. Vediamo ora alcuni esempi di lettura della Scrittura dal punto di vista del linguista Patrick Sauzet.

 

a. Patrick Sauzet e la "lingua immolata"[80]

 

La lettura di Patrick Sauzet ci permette di affrontare la questione da due punti di vista: il monolinguismo e l'aspetto sacrificale. Entrambi gli aspetti ci riportano al binomio violenza e potere, secondo l'articolazione che stabiliamo tra il Diluvio (Gen 8,31-9,7) e Babele (Gen 11). Abbiamo detto con Thomas Römer che fino a Babele la questione dello statuto del linguaggio non si pone, che il linguaggio è unico e comune agli animali, agli esseri umani e a Dio. In occasione della Pentecoste abbiamo aggiunto le nozioni di idioletto ed eteroglossia. È a uno sforzo nozionistico simile che Patrick Sauzet ci invita: "Il mito di Babele è spesso frainteso, mi sembra. Vediamo il disordine nella confusione delle lingue. E' infatti il monolinguismo che, attraverso la costruzione di una torre sempre più alta (bella immagine di competizione mimetica), l'eccesso colpevole, porta alla punizione divina. La confusione delle lingue e la dispersione dei popoli segnarono il ritorno ad un ordine pacifico e differenziato. Se Babele è Babilonia, il mito parla senza dubbio del rischio di disgregazione nella violenza di un vasto impero dove i divieti mimetici tendono a svanire, compresi quelli linguistici. Solo le piccole comunità differenziate sono immuni da tali crisi. Piccolo è tranquillo. [81] La questione dell'imperialismo viene qui reintrodotta. Il linguista conclude come abbiamo fatto sopra: "La diversità linguistica, la diversità delle lingue e la differenziazione dialettale, non è quindi un disturbo".[82] Ma offre anche una visione del rapporto tra diversità e dispersione geografica: "L'omogeneità si verifica solo all'interno del gruppo più piccolo. La dialettizzazione assicura l'ordine linguistico suggellando l'appartenenza comunitaria di ogni persona. [83] La sociolinguistica spiega i fenomeni di differenziazione in questo modo. Patrick Sauzet sottolinea anche che forse "la percezione che il linguaggio sia legittimato solo nella sua specificità più estrema".[84] Questi sono i fenomeni più caratteristici del discorso, quelli che lo rendono il più riconoscibile, che può passare per i non parlanti così come per i parlanti come il discorso più autentico. Al di fuori dell'ambito linguistico, questo fenomeno ricorda una tendenza della società a confondere, ad esempio in campo religioso, l'ortodossia e il radicalismo, con le posizioni più estreme o gli ambienti più radicali che appaiono, ai non addetti ai lavori, più in linea con il dogma.

La diversità e la differenziazione non escludono tuttavia la norma, come illustrato dalla definizione dinamica del linguaggio di Patrick Sauzet: "La lingua è, da un lato, la competenza interiorizzata dei parlanti, quella che è più appropriatamente chiamata grammatica. D'altra parte, è un'istituzione sociale che ne fa un simbolo collettivo, un oggetto e uno strumento di regolamentazione. La norma, per quanto rigida possa essere, è al centro del linguaggio istituito.  Lo incarna, ma non lo riassume: la norma misurata, riunisce pratiche che si discostano da essa. Un linguaggio istituito è, in un certo senso, lo spazio per la ricezione di una norma, conformismo e devianze riunite. In quanto istituzione, la lingua è legata a tutte le istituzioni di una società, è uno dei suoi mezzi e uno dei suoi riferimenti. Il sospetto di conflitto nell'ordine linguistico può quindi essere messo in relazione con un sospetto più generale della presenza di violenza sotto qualsiasi istituzione. [85] La distribuzione dei linguaggi, e con essi il fatto variazionale e i fenomeni di differenziazione che abbiamo appena ricordato, ha dunque a che fare anche con la gestione della violenza.

            Il sociolinguista introduce la nozione contemporanea di nazione in occasione dell'offuscamento di Babele. Per amor di chiarezza, abbiamo preferito il termine "popoli" a "nazioni" per tradurre il גוים o Etnia di Gen 10. Forse possiamo spiegare qui la nozione attraverso l'uso del concetto politico di stato-nazione. "La nazione in un certo senso è una Babele, una Babele monolingue di fronte alla lotta divina".[86] Nella ripresa della sua esegesi sociolinguistica, Patrick Sauzet chiarisce così il legame tra il monolinguismo e una concezione della nazione che potrebbe prefigurare quella dello Stato-nazione, entrambi uniti in un culto di ciò che il linguista qualifica come indistinzione. L'indistinzione sembra essere una nozione adeguata nel contesto di una teologia sacerdotale della creazione legata alle delimitazioni. Dis-tingere significa letteralmente "separare, dividere". L'indistinto, dunque, è il confuso nel senso dell'indifferenziato. L'interferenza introdotta da Dio è quindi una confusione che stabilisce non confusione, ma chiarezza. Il divino σύγχυσις (confusio) è al servizio del Distinzione.

L'offuscamento divino interverrebbe contro una sacralizzazione della politica e in particolare una sacralizzazione del linguaggio come monopolio dello Stato e strumento politico: la separazione tra religione e Stato «può ricevere due letture opposte: può significare una relativizzazione, una desacralizzazione della politica, del dominio di Cesare distinto da quello di Dio. Al contrario, può trasferire allo Stato e alla nazione il carattere assoluto e trascendente della religione, che è ormai "relegata nella sfera privata". La laicità può, secondo una lettura, permettere che lo stato assoluto, secondo l'altra, accompagni lo stato modesto. [87] Laddove la "tavola delle nazioni" mostrava una dispersione nei popoli come conseguenza della confusio linguarum, Babele ci inviterebbe a confondere la dimensione culturale e quella politica: "Lo scollamento dell'ordine linguistico e quindi culturale con l'ordine politico contribuisce alla desacralizzazione della politica. L'eccesso di Babele (della Babele monolingue che costruisce la torre) è quello della semplicità, di uno stato, di una nazione, di una lingua. [88] La pretesa totalitaria di Babele ricorda ancora una volta la nozione di imperialismo, che l'esegesi, in particolare di David Carr, ha tuttavia mostrato quanto sia difficile scoprirla in questi testi[89].  Scartata a favore dell'esegesi storico-critica, una lettura antimperialista di Babele riappare come lettura sociolinguistica, e, con essa, il concetto di assoluto. Mentre Dio si limita, le istituzioni umane esigono per sé l'assolutezza, rifiutando le distinzioni linguistiche e culturali. Inoltre, il legame tra Babele e l'imperialismo riappare anche in una lettura teologica della storia. È stato ampiamente analizzato da John Dominic Crossan in God and Empire (1989).

           

            b. Cesare e Dio (Mc 12,17; Mt 22,21; Luca 20,25)

 

Abbiamo mantenuto un argomento a favore della nozione di imperialismo nell'analisi storica di John Dominic Crossan. Innanzitutto, ricordiamo che David Carr sottolinea l'antichità delle interpretazioni di Babele nel senso di una critica dell'Impero[90]. Crossan, da parte sua, ci ricorda che l'espressione "figlio di Dio" si riferisce a una realtà storica. Nel mondo di Gesù, quello di uno dei confini dell'Impero Romano, l'espressione "figlio di Dio" si riferisce inequivocabilmente all'imperatore di Roma. Così ricorda in un libro dal titolo già significativo, Dio e l'Impero: Gesù contro Roma, ieri e oggi (2007): «C'era un essere umano nel primo secolo che si chiamava 'Divino', 'Figlio di Dio', 'Dio' e 'Dio di Dio', i cui titoli erano 'Signore', 'Redentore', 'Liberatore' e 'Salvatore del mondo'. [...] La maggior parte dei cristiani probabilmente pensa che questi titoli siano stati originariamente creati e applicati solo a Cristo. Ma prima che Gesù esistesse, tutti questi termini appartenevano a Cesare Augusto. [91] La dimostrazione di Crossan è che l'attribuzione di questi titoli da parte dei primi cristiani a Gesù è un modo per negarli ad Augusto: "Presero l'identità dell'imperatore romano e la diedero a un contadino ebreo. O si trattava di una specie di scherzo o di una presa in giro, o faceva parte di ciò che i Romani chiamavano maestà e che noi chiamiamo alto tradimento. »[92]

La dimostrazione di Crossan in God & Empire (2007) continua nel suo recente libro Render unto Caesar (2022), questa volta illustrato attraverso l'episodio sinottico della tassa dovuta a Cesare (Mc 12,17; Mt 22,21; Lc 20,25). Dire che gli affari di Cesare devono essere resi a Cesare, e quelli di Dio a Dio, è come dire che Cesare non è Dio: "Cesare e Dio devono essere distinti".[93] In altre parole, Gesù reintroduce la particolarità. "Se Cesare e Dio non sono né dati come identici né equiparati, come sono associati, accomodati, adattati, assimilati o acculturati l'uno all'altro nel mondo attuale in cui tutti viviamo?"[94] Crossan ritiene che questi cinque verbi "rappresentino tipicamente il pendio sbagliato verso la piena acculturazione",[95] che definisce come segue: "Con questa parola intendo una profonda integrazione nella cultura circostante in modo da nuotare in essa dolcemente, inconsciamente e acriticamente, come un pesce".[96] Le parole dell'ex sacerdote e storico delle religioni sono particolarmente dure in questa occasione: "L'acculturazione è il freno alla normalità, l'illusione del conformismo, la maledizione del carrierismo che può, sotto certi capi, in certe circostanze, in certi tempi e in certi luoghi, trasformare alcuni di noi in mostri, molti di noi in bugiardi,  E la maggior parte di noi è codarda. [97] Non possiamo qui riprodurre l'argomento storico di Crossan, specialmente dalla romanizzazione della Gallia. Ci limitiamo a ciò che l'uomo di fede e lo storico conservano della trattazione del tema dell'acculturazione da parte del Nuovo Testamento, che egli chiama "la questione della sovranità divina e dell'acculturazione umana".[98] Il trascinamento, l'illusione e la maledizione sono associati a modalità di indistinzione (normalità, conformismo) o temporalità (routine o eccessiva ambizione professionale) che portano inevitabilmente all'indurimento, all'assuefazione, cioè all'accettazione dell'inaccettabile. Acculturare significa parlare, vivere, pensare nella lingua del maestro, la lingua del mondo, e non quella del Signore.

            Il Nuovo Testamento, secondo Crossan, affronta la questione dell'acculturazione in due modi contraddittori, 1) demonizzando l'acculturazione nel libro dell'Apocalisse, o 2) canonizzandola nel dittico Luca-Atti. Sulla base di questa antinomia, lo storico si interroga sulla possibilità di postulare una "critica radicale dell'acculturazione come via da seguire per la fede cristiana".[99] Così facendo, la dimostrazione risuona con la ricerca di Crossan sul Gesù storico tra una pace ottenuta con la forza e la sovversione (quella di Cesare) e una pace ottenuta con la giustizia (quella di Dio). È questa una delle ipotesi sul Gesù storico enunciate da Adriana Destro e Mauro Pesce, quella di un Gesù che "annunciava l'imminenza del Giudizio Universale di Dio, in cui sarebbero stati ribaltati i rapporti ingiusti che erano considerati, paradossalmente, come l'ordine sociale".[100]

            Ma, d'altra parte, cosa possiamo nascondere a Crossan, Carr o Destro-Pesce? Si può parlare del linguaggio di Cesare per descrivere il sovvertimento dei linguaggi ridotti a strumenti di potere e incapaci di abbracciare il creato nelle sue dimensioni relazionali? Questo sovvertimento del linguaggio differisce dall'ambivalenza fondamentale del linguaggio, o ne è solo un aspetto?

 

         c. Caino e Abele

            Dopo aver evocato il potere, torniamo alla violenza e al suo avvento. Per affrontare questa violenza, abbiamo finora citato l'episodio del Diluvio, ignorando consapevolmente la prima spettacolare manifestazione di violenza nel racconto della Genesi, quella di Caino e Abele (Gen 4,1-16). Questa "coppia fondatrice"[101] è una delle figure implicite di Diglossia. Anche se Patrick Sauzet non cita esplicitamente Caino e Abele, applica il modello girardiano al funzionamento linguistico, mettendo in discussione la dimensione sacrificale. John Dominic Crossan sostiene che, secondo la tradizione biblica, "la civiltà è iniziata immediatamente con il fratricidio".[102], e più precisamente dall'"omicidio di un pastore da parte di un contadino nella sua stessa fattoria"[103]. E poiché Caino fonda la prima città (Gn 4,17), «Caino, l'introduttore della violenza, è ulteriormente identificato come il padre – o il nonno – della cultura sedentaria o della "civiltà" [...] Questa storia si adatta perfettamente alla comprensione che il surplus agricolo alla fine ha portato a un aumento dell'individualismo, dell'aggressività, della guerra e dell'avidità. »[104] L'obsolescenza di uno porterebbe naturalmente alla sua eliminazione. Questo è l'argomento spesso usato contro le lingue minoritarie. Sarebbe la stessa cosa con le lingue come con Abele, la loro mortalità è inevitabile[105]. Piuttosto che l'obsolescenza, tuttavia, la storia sembra mantenere la ridondanza. Così, nel caso della coppia franco-occitana: "La coppia fondatrice delle due lingue, la regalità dell'una che emerge dall'eliminazione dell'altra su uno sfondo di fondamentale equivalenza, mette in luce la percezione della situazione occitana come quella di un conflitto nascosto. Affinché vi sia un conflitto linguistico effettivo, le due lingue dovrebbero poter rivendicare la stessa dignità e lo stesso status. Tuttavia, questa è una conclusione scontata: rivendicare la dignità linguistica dell'occitano significa mettere in discussione l'istituzione stessa del francese. »[106] L'avvento dell'uno è la condizione per l'abbassamento dell'altro.

Patrick Sauzet evidenzia la ricorrenza non solo dell'"accoppiamento dei due linguaggi", [107]ma anche del gioco di specchi legato a questo accoppiamento. L'uno avrebbe potuto incontrare la sorte dell'altro, secondo "il tema essenziale . . . dell'elezione casuale. [108] Siamo sempre l'altro dell'altro, ma nell'esempio del francese e dell'occitano, c'è autonomia dell'uno per claustrazione dell'altro. L'effetto è forse meno radicale che nella coppia Caino-Abele, ma i due modelli condividono una dimensione inaugurale: "La riduzione dell'occitano non è un effetto marginale dell'avvento del ̧ais francese,  ma si situa nel suo principio".[109] Si noti la distorsione della realtà associata a una strategia di sfratto, sia perché il linguaggio egemonico si presenta come minacciato[110], sia perché il linguaggio dominato è dato per morto[111] anche se è ancora molto vivo. Il crimine garantisce una riscrittura della realtà: la scomparsa dell'altro risolve il problema dell'alterità. Meglio ancora, la negazione dell'alterità rende inutile la scomparsa fisica dell'altro, poiché non ha più un'esistenza nel mondo egemonico. Di fronte a questa distorsione della realtà, Dio viene a restaurare la realtà chiedendo: "Dov'è tuo fratello Abele?" (Genesi 4:9).

La realtà è che questa violenza fraterna, in senso stretto, non si ferma a questa dimensione familiare. Questa violenza fraterna è di fatto una violenza di portata universale. Poiché si tratta di violenza tra esseri umani, è "un'offesa a Dio e un modo in cui gli esseri umani inquinano il suolo da cui dipendono".[112] Una dimensione ecologica copre quindi i problemi legati alla coppia violenza-potere, a cui si sono aggiunti i problemi legati al dominio.[113] È la perdita del rapporto e del dialogo con Dio[114], e non particolarmente l'impulsività o l'ira di Caino, che porta all'inquinamento della terra. Sia che assuma un'estensione universale fino a includere la terra, sia che venga distrutta, la dimensione relazionale rimane al centro di questa storia.

L'inquinamento è, nella storia di Abele e Caino, l'esito deplorevole di un rancore nato dai rispettivi sacrifici dei due fratelli e dalla loro accoglienza da parte di Dio, cioè di un atto che ha esattamente lo scopo opposto. I sacrifici nel senso dell'Antico Testamento richiedono che la vittima sacrificale sia resa sacra (sacrum facere).[115] La dimensione sacrificale, e in particolare quella che vorrebbe che uno dei due membri di una coppia fondatrice sacrificasse se stesso, è sottolineata da Patrick Sauzet nella retorica accentratrice dell'Abbé Grégoire: "Grégoire chiede ai francesi del Sud, agli occitani, di sacrificare la loro lingua all'unità (linguistica) nazionale ("I nostri fratelli del Sud [...] abiurò e combatté contro il federalismo politico; combatteranno con la stessa energia contro quella dei modi di dire."")[116] In contrasto con la logica sacrificale dell'Antico Testamento, qui «il rifiuto, spesso violento, del termine occitano, della chiara denominazione di questa lingua, fa parte della logica sacrificale. Il sacrificato è indicibile, tabù. [117] Patrick Sauzet conclude: "L'ipotesi, quindi, è che anche la lingua francese si basi sul sacrificio. L'eliminazione delle altre lingue non è una conseguenza del successo del francese, ma la sua condizione. [118] Questa dimensione sacrificale, tuttavia, deve essere qualificata, sia che si mantenga la logica sacrificale dell'Antico Testamento, sia che si intenda per sacrificio il fatto di imporsi una privazione. Qui, il sacrificato è l'altro della coppia fondatrice. Non c'è rinuncia o sforzo su se stessi, ma l'esecuzione del doppio. L'alterità non è sopportata; è liquidata. Ultimo ma non meno importante, la logica sacrificale biblica non viene rispettata. Tra i sacrifici menzionati nell'Antico Testamento, ricordiamone due che ci sembrano particolarmente significativi in relazione al nostro scopo: il sacrificio per il peccato (Lv 4,1-5.13) e il sacrificio di riparazione (Lv 5,14-26). Qui troviamo la tradizione sacerdotale e la sua preoccupazione per la dimensione relazionale: il nome di questi due sacrifici designa, infatti, "l'attacco alla relazione che servono a ristabilire".[119] Con loro arriva la nozione di riconoscimento. Da un lato, questi sacrifici "implicano il riconoscimento della colpa commessa".[120] D'altra parte, sono esclusi i peccati «commessi deliberatamente e in ossequio al Signore»[121] (Nm 15,30-31). L'esecuzione del duplicato non soddisfa questi criteri dell'Antico Testamento. Qui è l'esegesi teologica che permette di rifiutare completamente le giustificazioni sacrificali e di contribuire al riconoscimento della vittima come tale.

 

         d. Linguaggio dei poveri

 

Rifiutare la dimensione sacrificale permette di ristabilire la realtà del male. Il dominio linguistico contribuisce al dominio sociale ed economico. Se, secondo Jacques Dupuis, "in [Cristo] si rivela e si incarna la contraddizione tra Dio e i poveri che subiscono l'oppressione per mano dei ricchi", i [122]parlanti delle lingue minoritarie, da parte loro, hanno talvolta l'impressione che "una lingua dei poveri sia più adatta a celebrare la kenosis della Parola".[123] Sono sensibili al simbolismo del Figlio che cercava la compagnia dei poveri e dei disprezzati. Da questo punto di vista, le lingue minoritarie offrono una comprensione intima e familiare del messaggio cristiano, dove, secondo le parole di Aloysius Pieris, «Gesù è [...] il patto di difesa tra gli oppressi e il Signore".[124] Si pensi qui a Mt 19,24 o agli accenti anabattisti che si preoccupano di dissociare la Chiesa dalle istituzioni del potere politico o economico. Se è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio, che dire di un vangelo predicato nella lingua dei ricchi, vale a dire, almeno, di quello che appare tale a causa del prestigio a cui è associato, o, perché, questo prestigio deriva dal potere?  Gli si può dare un potere equivalente a quello dei ricchi.  Christopher Rowland enfatizza la teologia della liberazione in questi termini: "Visto dal lato inferiore della storia, dai poveri e dagli emarginati, il messaggio del regno sembra molto diverso dal modo in cui è stato dipinto da coloro che hanno avuto il potere di scrivere la storia della chiesa e formulare il suo dogma e le sue preoccupazioni sociali".[125] Inoltre, come sottolinea il teologo di Oxford, la teologia della liberazione ci ricorda "con forza (forzatamente) che l'impresa teologica contemporanea non può sfuggire alla riflessione critica sui suoi presupposti e sulle sue preferenze".[126] Tuttavia, la dominanza linguistica è raramente presentata come uno di questi presupposti o opzioni. Ciò è in parte dovuto all'opacità della dominanza linguistica, come sottolinea Patrick Sauzet: "Ciò che rimane opaco [...], è la dominanza linguistica stessa. Non il suo dispiegamento nelle pratiche della società, non la sua nascita e il suo sviluppo storico (ogni sociolinguista si sforza di descriverlo), ma la sua stessa capacità di stabilirsi negli usi del linguaggio, di (dis)organizzarli. [127] Al rapporto di violenza e potere, e a quello di dominio, bisogna infine aggiungere il tema della sovversione. A priori, l'ambivalenza qui ha meno a che fare con il linguaggio in sé che con i giochi di dominio a cui si presta.

 

C. Riformulazione della domanda e tematizzazione

 

         ha. Violenza, potere e dominio

 

Lontana dall'antico dibattito filosofico sul potere del linguaggio e sul linguaggio del potere, l'esegesi mostra la preesistenza del Verbo, esecutore e creatore, attributo di un Dio che inizia e ricomincia un rapporto con le sue creature. Il potere divino, a differenza del potere umano, è autolimitazione, mentre il potere a cui aspira l'uomo lo porta a ricadere sempre di nuovo nella violenza o nel dominio. La narrazione biblica non collega la violenza o le relazioni di potere (ad esempio, Dio contro gli uomini in Genesi 11) al linguaggio. Egli si limita a spiegare la comparsa delle lingue come conseguenza di questi rapporti di potere. La confusione delle lingue non è di per sé dovuta alla disubbidienza degli esseri umani, ma ha a che fare con questo scontro di poteri tra il Creatore e le sue creature. La diversità e la variazione linguistica eliminano questa minaccia di caos organizzando la dispersione degli esseri umani in tutta la terra. Questa dispersione è ancora oggi evidente, e divide ben al di là dei popoli, all'interno degli stessi gruppi sociali. Queste delineazioni hanno a che fare con un equilibrio di potere e un'intimità del fenomeno specifico del linguaggio. In effetti, il fatto variazionale non si limita alla fonologia, alla morfologia, alla prosodia o a qualsiasi altro elemento che consenta di delimitare un discorso e distinguerlo da un altro. I parlanti di lingue risultanti da un processo di omogeneizzazione rimangono sensibili a tutta una serie di variazioni, dalle implicazioni sociali di questo o quell'uso, alle intonazioni che inducono a una linea di pensiero, alle sfumature di superiorità o di disprezzo: "La lingua è parte integrante della vita sociale, con tutti i suoi trucchi e le sue iniquità, e [...] Gran parte del nostro consiste nello scambio di routine di espressioni linguistiche nel flusso quotidiano dell'interazione sociale. [128] Il linguaggio è spesso il luogo in cui vengono eseguite le strategie sociali. Il modello del prestigio e il modello del potere tendono ad essere confusi, e la possibilità di umiliare, disprezzare, o anche la condizione di elevarsi socialmente – o di sembrare di elevarsi – è dovuta all'adozione del linguaggio del padrone. Le implicazioni teologiche non sono neutrali. Che cosa si deve dire quando un uomo parla, o quando la sua Chiesa parla solo nella lingua del maestro, e la lingua del maestro si presenta come la lingua del Signore? 

 

            b. Lingua di Cesare

 

Questa de-escalation del confronto tra il potere divino e quello umano attraverso il pluralismo linguistico, ma anche, all'interno del linguaggio stesso, attraverso la frammentazione dei rapporti di potere, trova una traduzione storica tra le lingue dominanti, le lingue di acculturazione al mondo, le lingue di Cesare, e, d'altra parte, la Parola che non cessa di invocare la ricerca della pace non con la forza.  ma per giustizia. L'esistenza delle lingue di Cesare, lingue che veicolano un'affermazione di forza, di uniformità, di una "babele ideologica",[129] di un'unità cercata e sostenuta dalla lingua, è sufficiente a dare uno statuto teologico alle lingue vittime di questi conflitti linguistici? È possibile dire di ogni lingua ciò che Geffré dice di ogni figura religiosa: ogni lingua conserva «qualcosa di irriducibile nella misura in cui ha potuto essere suscitata dallo stesso Spirito di Dio»?[130]

           

         c. Il carattere relazionale e il reale come requisito

 

Più che un Dio staccato dalla sua creazione, l'esegesi mostra un Dio in relazione con l'umano. Questa dimensione relazionale assume il suo significato più pratico nella dimensione dialogica. Trascritta nell'ambito del discorso religioso, questa dimensione si presenta come una delle condizioni di accesso all'universale[131]. L'analogia tra pluralismo linguistico e pluralismo religioso ci invita a de-assolutizzare le lingue egemoniche, allo stesso modo in cui le religioni sono chiamate ad accettare "le conseguenze della [loro] storicità".[132] La dimensione relazionale fa temere ai partiti dominanti che la loro egemonia venga relativizzata, ma è solo un richiamo alla realtà, non solo una condizione per la pace – basata sulla giustizia – ma anche un'esigenza per vedere la realtà così com'è, e non come le parti dominanti vorrebbero vederla.

 

         d. I molti contro l'idolatria

 

            I molti si fanno conoscere come la volontà divina. Dio, infatti, non può condannare la pluralità delle lingue: «Egli non condanna la pluralità delle lingue e quindi delle culture, perché si tratta piuttosto di un ritorno alla condizione originaria voluta da Dio».[133]. Il molteplice è un modo di espressione dell'Uno, sia attraverso la natura, ma anche, in modo particolare, attraverso l'umano. Dio non vuole essere idolatrato, cioè feticizzato come Uno. Questo non contravviene allo Shemà Israel (Deuteronomio 6:4). Se Dio esige che l'adorazione sia resa solo a se stesso (Es 20,3), proibisce anche ogni forma di idolatria. La domanda, quindi, è se l'idolatria riguardi l'adorazione di un potere diverso da Dio, o se esista una modalità di adorazione – l'idolatria – che è proibita da Dio, anche se egli ne è il destinatario. Vediamo nel V'ahavta[134] subito dopo lo Shemà c'è un'indicazione di come Dio si aspetta di essere adorato: "Tu ama". Certo, il versetto Dt 6,5 continua con "con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze", questo "tutto" invita ancora una volta all'idea dell'assoluto, ma questo versetto è, in realtà, un appello affinché ciascuno, nella sua integrità e nella sua interezza, ami Dio. Idolatrare Dio significherebbe adorarLo alla maniera di una persona fisica, rinunciando al proprio cuore, alla propria anima e alla propria forza. Al contrario, è nella molteplicità dei cuori, delle anime e delle forze che Dio chiama a rendergli culto. L'analisi di Patrick Sauzet, aggiungendo la dimensione sacrificale, ci invita a vedere come questa umanità sia tentata di sacrificare a se stessa, anche se ciò significa immolare l'opera del Creatore. Contro questa aspirazione assolutista, Dio si fa conoscere come una potenza capace di autocontrollo.

La teologia delle religioni offre una valorizzazione particolarmente chiara del molteplice. È il caso, in particolare, di Claude Geffré, la cui esegesi teologica di Babele e della Pentecoste si sovrappone a quelle sopra descritte. Gli accenti di Geffré erano molto vicini alla sociolinguistica occitana: "Ciò che Dio condanna è un'unicità linguistica che avrebbe l'ambizione idolatrica di sostituire l'unico Dio con un'umanità monolitica che si farebbe Dio".[135] L'esegesi di Claude Geffré collocata così nel contesto del suo impegno e del suo lavoro teologico al servizio della Parola, attraverso la teologia interreligiosa, possiamo leggere in essa una teologia del pluralismo linguistico che è tanto più corroborante e confortante in quanto ancorata alla Scrittura: «La dispersione delle lingue è sempre stata interpretata come una punizione in risposta all'orgoglio degli uomini che volevano costruire un'unica torre che fosse come la rivale dell'unicità di Dio. [136]  L'unicità di Dio non può essere eguagliata dall'unicità linguistica. Le forze dell'omogeneizzazione sono fondamentalmente idolatriche, cioè cercano di provocare una riduzione di Dio. Sacrificare i molti non è adorare Dio.  E Dio non può essere invocato per condannare i molti. L'unicità di Dio non è in discussione. Dio è Uno. Ma Dio non vuole essere adorato come un idolo. Egli può essere adorato nei molti, e attraverso, attraverso la figura così particolare di Gesù di Nazareth.

 

         e. Incarnazione e storia

 

"Il Dio della Bibbia benedice i molti, così come benedice la condizione umana come storica e carnale".[137] Cosa possiamo dire dopo un'affermazione che riassume perfettamente tutto ciò che questo studio afferma di significare? Potremmo fermarci qui. Questa valorizzazione della diversità, tuttavia, avviene attraverso «la completa singolarizzazione dell'universalismo nella persona di Gesù»:[138] Dio si rivela in modo singolare in Gesù, mentre Egli si è fatto e si fa conoscere nella storia. Se il molteplice è un modo di espressione dell'Uno nella storia, o attraverso la creazione, esso non si fa conoscere come molteplice: si rivela nel particolare, un particolare che, per la sua importanza, non è un'illustrazione dell'universale – l'incarnazione non è un avatar – ma piuttosto il segno che l'universale deve essere compreso dal punto di vista di questo particolare. È in questo senso che Gesù Cristo è davvero il concretissimum universale e non l'universale concretizzato. L'universale non inventa qualcosa di concreto o annulla il concreto, ma attraverso l'incarnazione ogni persona, ogni espressione unica e singolare del concreto, è unita a Cristo. L'universale compreso attraverso questo incontro di persone non è una fusione del concreto con il crogiolo dell'universale, ma appare piuttosto come il doppiaggio di quel concreto che è la persona umana, "elevata all'unità".[139]

Va anche notato che Claude Geffré attinge l'argomento dal pluralismo linguistico per giustificare, in senso pieno e teologico, il pluralismo religioso: "Se la pluralità delle lingue e delle culture è benedetta da Dio, non dovremmo anche dire che la pluralità delle tradizioni religiose è riconosciuta e persino voluta da Dio?"[140] Il teologo estende la sua esegesi anche alle culture: «Con l'effusione dello Spirito del Risorto a Pentecoste, è lecito pensare che la pluralità delle lingue e delle culture sia necessaria per tradurre la ricchezza del Mistero di Dio».[141] L'introduzione qui della nozione di mistero ci condurrà ad esaminare la questione più particolarmente dal punto di vista della teologia protestante.

 

            f. L'Universale e la Legge dell'Amore

 

Le storie della Tavola dei Popoli e della Torre di Babele sono incorniciate da due eventi in cui il rapporto di Dio con l'uomo ha un significato universale, vale a dire l'alleanza stipulata con Noè (Gen 9) e la chiamata di Abramo (Gen 12). La questione dell'universale è accompagnata da limitazioni: «La realizzazione abortita della Torre di Babele può essere vista come una critica a una falsa concezione dell'universale. Israele deve stare attento a non raggiungere l'universale attraverso la conquista e l'egemonia. [142] L'inquadramento della Tavola dei Popoli e della Torre di Babele colloca così queste narrazioni in una logica storica e teologica, "l'universalismo sempre più esplicito della legge dell'amore"[143]  di cui l'incarnazione è la manifestazione perfetta.

 

            g. Pluralismo linguistico e pluralismo religioso

 

Il confronto tra le questioni del pluralismo linguistico e del pluralismo religioso[144] porterebbe quasi a considerare la questione delle lingue un non-problema dal punto di vista teologico. Solo che, come abbiamo visto nell'esegesi teologica della Tavola dei Popoli, il pluralismo linguistico gode di una giustificazione scritturale di cui il pluralismo religioso non gode. Quale legame ci permette di stabilire la nostra esegesi teologica tra la diversità delle lingue e il pluralismo religioso? La dispersione delle religioni potrebbe essere la conseguenza della confusio linguarum, come è la conseguenza della dispersione dei popoli? André Gounelle ci ricorda che lo stesso Karl Barth fa il collegamento tra Babele e la religione: "Barth vede nella religione un tentativo dell'essere umano di mettere le mani su Dio, di afferrarlo e addomesticarlo invece di sottomettersi a lui e servirlo, di immaginarlo invece di ascoltare la sua parola,  per rendersi giusti invece di riconoscersi peccatori. La Torre di Babele potrebbe simboleggiare la religione: i suoi costruttori vogliono ascendere al cielo con i propri mezzi, mentre la Bibbia ci insegna che Dio discende tra gli esseri umani. [145] Da questo punto di vista, il pluralismo religioso o linguistico è un invito a meditare sull'unicità di Dio piuttosto che a costruirlo sulla base di una concezione pienamente umana dell'uno. Geffré lo mette in termini prefigurativi: "I teologi dovranno sopportare sempre più intellettualmente l'enigma di una pluralità di tradizioni religiose nella loro irriducibile differenza".[146] Dobbiamo essere consapevoli di questa distinzione, una delle tante distinzioni rese possibili dall'avvicinamento tra i problemi del pluralismo linguistico e quelli del pluralismo religioso: la grande diversità delle lingue e la variazione linguistica non devono sopportare teologicamente l'enigma della loro pluralità e della loro irriducibile differenza. Questi ultimi sono voluti da Dio e trovano una giustificazione scritturale di cui nemmeno le tradizioni religiose, a volte poco benevoli al pluralismo linguistico, godono. L'esistenza delle lingue nella loro forma più irriducibile, e più irriducibilmente soggetta a variazioni, può essere armonizzata con una teologia della creazione che si preoccupa di combattere il caos[147], di coinvolgere la storia umana e di contribuire alla creazione di un mondo nuovo o di un mondo che si rinnova costantemente. Le tradizioni religiose, da parte loro, si confrontano con il mistero della loro pluralità, con la questione della loro contingenza e storicità. 

 

i. Può la teologia spiegare una tale domanda?    

 

Vista dal punto di vista della teologia delle religioni, la questione del pluralismo linguistico sembra invidiabile nella sua semplicità e chiarezza. Innanzitutto, e non ultimo dei suoi vantaggi, il pluralismo linguistico beneficia di una giustificazione scritturale, la cui mancanza è molto sentita quando si tratta di trattare con il pluralismo religioso.  In ogni caso, questo è il giudizio di Claude Geffré, la cui esperienza e pratica del discorso interreligioso ci obbligano all'ascolto: "Avremo grandi difficoltà a trovare nella Bibbia una risposta alla questione della pluralità delle religioni".[148] Se ci ripetiamo qui, è perché, in subordine, la domanda potrebbe essere: è possibile affrontare la questione delle lingue minoritarie dalla teologia protestante? Da questo punto di vista, l'avanzare una giustificazione scritturale sembra, a prima vista, essere un vantaggio nella teologia protestante, anche se quest'ultima ha reso giustizia alla nozione di scriptura sola[149].

Quello che poteva sembrare un secondo ostacolo era il rischio di cadere nella teologia naturale cercando di individuare troppo chiaramente nelle lingue minoritarie un luogo dell'azione di Dio. Una traccia di analoga esitazione si può trovare nella distinzione, già accennata nell'introduzione, tra "sostanza cattolica e principio protestante".[150] Grazie a Tillich, come teologo della cultura, Geffré sa di[151] essere a metà strada tra la teologia cattolica e quella protestante: «Sia nella Dogmatik del 1925, sia nelle Lezioni che seguirono il suo seminario con Mircea Eliade, [Tillich] non cessa mai di meditare sul cristianesimo come religione non assoluta che tuttavia testimonia al tempo stesso la rivelazione finale. È lecito affermare la risonanza cattolica della sua teologia nella misura in cui essa si pone a pari distanza dall'arroganza della teologia dialettica e del neoliberismo, che è pronto a sacrificare la norma cristologica per facilitare il dialogo interreligioso. [152] Geffré ha fatto eco alle parole dell'ex assistente di Tillich, che vedeva in lui "il più 'cattolico' dei teologi protestanti".[153] Quando si considerano le lingue minoritarie, si dovrebbe parlare di teologia naturale o di teologia della storia, pensando alla frase con cui Claude Geffré riassume la tesi del teologo cattolico Edward Schillebeeckx: "Dio non cessa mai di raccontarsi nella storia".[154] ? In effetti, le domande che teologi cattolici come Edward Schillebeeckx, Jacques Dupuis e Claude Geffré hanno posto sul pluralismo religioso non sembrano applicarsi anche al pluralismo linguistico. Quando si chiede «se questo pluralismo di fatto non ci rimanda a un pluralismo di principio o di diritto che appartiene al misterioso disegno di Dio», [155]nel caso specifico del pluralismo linguistico, la Scrittura risponde. Risponde a favore del pluralismo linguistico de jure, come si è detto sopra[156]. Si potrebbe fare il bivio se, come estensione dei linguaggi, si considerassero le culture, e, a partire dalle culture, le religioni? In ogni caso, Claude Geffré collega culture e religioni, ponendole entrambe sotto il segno dell'ambiguità[157]. L'ambiguità, comunemente associata al linguaggio, non si applica scritturalmente alle lingue. Non dobbiamo importare nella narrazione biblica ciò che appartiene ad altri racconti della creazione: "I racconti biblici non specificano un dono della lingua all'uomo. [...] In Atrahasis, il linguaggio appare come un dono ambiguo che gli dei hanno conferito agli uomini. [158] L'ambiguità o l'ambivalenza va forse ricercata attraverso nozioni diverse dal semplice linguaggio, l'uno e il molteplice o l'altro e lo stesso. Questo è ciò che esploreremo dopo aver studiato il rapporto tra il linguaggio, le lingue e la Parola.

II. Lingua e teologia: il rapporto tra la parola e le lingue

           

Se le lingue hanno la loro origine in Babele, la lingua primordiale ha la sua origine in Dio. L'anziano Robert W. Jenson chiede come inizia il linguaggio: "Come inizia il nostro discorso? La parola presuppone il linguaggio, ma il linguaggio presuppone la parola; con ogni probabilità, ci deve essere un primo Oratore, nel cui discorso la distinzione tra parola e linguaggio non è corrente. [159] Questa domanda, tuttavia, mantiene due elementi della fantasia delle origini: la genealogia pretende di risalire al creatore stesso e, così facendo, il ragionamento sostituisce la nozione di lingua alle lingue. Tuttavia, il linguaggio unico, comune agli animali, agli esseri umani e a Dio, è solo implicito nel testo biblico. Ciò che è primario è molto più la Parola che il Linguaggio. Sulla base della rivelazione, il modo di esprimersi di Dio non è né l'Uno, né i Molti, e nemmeno il linguaggio, ma la Parola. La ricerca dell'immediatezza che sta alla base della ricerca di un linguaggio unico e primordiale si scontra con l'Incarnazione, che è l'espressione particolare, nel tempo e nello spazio, del Verbo. Lo statuto teologico delle lingue si pone nel contesto di questa relazione fondamentale. Esse non sono qui subordinate alla nozione di lingua o a quella di una possibile gerarchia che avvicinerebbe la lingua a Dio, e che allontanerebbe da essa i dialetti locali. Le genealogie hanno la pretesa non tanto di dire qualcosa sul passato, quanto di indicare quel presente assoluto, incarnato nell'uomo di Galileo.

 

Ci chiederemo anzitutto qual è lo statuto teologico delle lingue in relazione alla Parola, prima di esaminare come le lingue siano legate da alcuni teologi più a questa o quella persona della Trinità. Infine, ci chiederemo come descrivere il rapporto tra le lingue e la Parola sulla base di tre tipi di rapporto: in primo luogo, il rapporto all'interno della Trinità tra le diverse persone divine, in secondo luogo, la comunione come rapporto a cui gli uomini sono chiamati tra di loro, e infine il rapporto tra Dio e gli uomini.

 

Ha. Lo statuto teologico delle lingue in rapporto alla parola

 

            Tommaso d'Aquino è il rappresentante di una certa ambiguità nei confronti delle lingue: da un lato, l'argomento relativo al dono delle lingue[160] D'altra parte, le lingue hanno un certo status teologico in quanto Dio avrebbe potuto far capire a tutti la lingua degli apostoli, invece di scegliere che gli apostoli parlassero tutte le lingue. Le lingue trovano qui una giustificazione e quindi una valorizzazione come elemento di mediazione. L'argomentazione di Tommaso anticipa quindi l'interrogatorio di Calvino[161]. Dio non ha ignorato i dialetti, né ha voluto rendere evidente la Sua vittoria. Ma l'argomentazione del Dottore Angelico si basa su una riduzione delle lingue alla loro natura di strumento di comunicazione. Le lingue non sono state ignorate, ma ciò che è stato fatto attraverso le lingue poteva senza dubbio essere fatto attraverso una lingua, una lingua che trasmettesse un messaggio semplice. È questa concezione del linguaggio che è all'opera tra gli oppositori della diversità linguistica, che sostengono che la lingua è semplicemente uno strumento di comunicazione.

            La valorizzazione della diversità linguistica non è meno chiara nell'argomentazione di Tommaso: le lingue sono un rimedio all'idolatria[162], che è associato a Babele (Gen 11,7). Se oggi il dono delle lingue non è più manifesto, è perché la Chiesa ora le parla tutte – Tommaso cita qui Agostino[163]. Questa parte dell'argomentazione di Tommaso sottolinea in particolare l'importanza di comprendere la lingua dell'altro. Così, non tanto perché gli apostoli fossero in grado di farsi capire da tutti, ma che essi stessi comprendessero il più vicino possibile la lingua del loro prossimo: "Era la perfezione della loro conoscenza che erano in grado non solo di esprimersi in qualsiasi lingua, ma anche di essere in grado di capire ciò che gli altri dicevano loro".[164] Seguendo l'argomentazione di Tommaso, va aggiunto che la Pentecoste è anche la scelta di non far capire una sola lingua, anche quelle degli apostoli, ma piuttosto la scelta di una comprensione universale dei dialetti da parte degli apostoli.

Quando Tommaso mette a confronto la glossolalia e il dono della profezia, chiedendosi quale dei due carismi prevalga, assume una superiorità della profezia sulla base di due criteri che sono alla base di una comprensione ambivalente, ma generalmente positiva, del linguaggio. Prima di tutto, la profezia è inequivocabile[165], quindi il linguaggio rimane il luogo dell'ambiguità. In secondo luogo, il fatto che la glossolalia non sia una questione di intercomprensione o di utilità umana[166] non gli viene attribuito. L'intelligenza e l'utilità, lungi dall'essere un segno di inferiorità, sono presentate come argomenti a favore della profezia. Sarebbero anche argomenti a favore del linguaggio? Questo è ciò che Tommaso sottintende: "L'uomo è ordinato a Dio per il dono della profezia secondo lo Spirito, che è più nobile che essere ordinato a lui con la sola parola".[167] L'uomo è sì ordinato a Dio per mezzo del linguaggio, ma è ordinato in misura minore che se fosse ordinato dallo Spirito. Non si tratta qui di ottenere per il linguaggio uno status più ampio di quello di strumento di comunicazione. Anzi. La profezia è considerata superiore alla glossolalia perché "parla agli uomini". L'ordinamento a Dio nella profezia è dovuto al fatto che, attraverso la profezia, lo Spirito volge l'essere umano "a Dio e al prossimo". Ma che dire di questo ordinamento per linguaggio, certamente meno perfetto, che Tommaso ci invita, incidentalmente, a mettere in discussione?

 

B. L'ordinamento delle lingue a Dio

 

            La perfezione della profezia in Tommaso risiede in due elementi: la forza motrice della mediazione e il suo orientamento. L'implicazione implicita è che solo lo Spirito può orientare perfettamente l'essere umano verso Dio e verso il prossimo. Secondo questa logica, lo statuto teologico delle lingue potrebbe essere valutato sulla base di una particolare azione dello Spirito attraverso le lingue e il loro orientamento verso Dio nel servizio al prossimo. D'altra parte, il racconto della Pentecoste mostra già che le lingue vengono da Dio. Esse sono già descritte come derivanti dallo Spirito.  L'intelligenza e l'utilità qui descritte da Tommaso pongono le condizioni per l'edificazione della Chiesa, che può essere intesa come orientata verso Dio e verso il prossimo. L'ambiguità del linguaggio non è all'ordine del giorno qui, anche se ad essa si aggiunge la pluralità delle lingue. Mentre la profezia ristabilisce l'immediatezza, nel caso della Pentecoste il linguaggio sembra conservare qualcosa della sua mediazione. Al momento della Pentecoste, i presenti sono ordinati a Dio secondo lo Spirito in un linguaggio che non è profezia.

 

            Distinguere tra Logos e Linguaggio

 

            Il Logos, "l'automanifestazione di Dio nell'universo e nella storia"[168], ricorda che Dio si manifesta sempre nello spazio e nel tempo necessariamente per via particolaristica, e che ogni tentativo di far manifestare Dio nella forma di un assoluto o di un'astrazione è idolatria. Il prologo del Quarto Vangelo proclama: il Verbo era Dio[169]. Il termine Parola ci ricorda che Dio è un Dio personale. La Sua Parola è per uso personale. Attraverso la parola Logos, la teologia si riferisce quindi a Cristo. Il termine, quindi, non può essere inteso in un contesto cristiano come "la lingua era Dio". Anche in questo caso, la nozione di linguaggio è assente. La parola non è, ad esempio, un uso personale nel senso che è distaccata da una lingua intesa come facoltà innata di comunicazione di una specie, tipicamente umana. Né è l'uso personale di una lingua, che viene acquisita e praticata. Tutt'al più, se teniamo presente, invece, che il Logos rimanda all'Incarnazione, la nozione di Logos si armonizzerebbe con quella di una grammatica universale (UG), da sempre chiamata a prendere forma in una realtà concreta. L'analogia sottolineerebbe che la manifestazione del Logos può avvenire solo nel tempo e nello spazio.

Innanzitutto, notiamo che questa auto-manifestazione passa in particolare attraverso la singolarità di un linguaggio, quello dell'autore del Quarto Vangelo. L'indicabilità di Dio fa parte di una tensione tra la necessità per l'evangelista di inventare il proprio linguaggio e la necessità di ricorrere al linguaggio comune. In questa polarità troviamo qualcosa della distinzione tra ciò che Saussure chiama "la forza del rapporto sessuale e il campanilismo".[170] Saussure chiama la forza del rapporto sessuale quella che "costringe gli uomini a comunicare tra loro".[171] Si presenta come "un principio unificante"[172]: gli scambi umani portano all'omogeneizzazione del linguaggio a scapito della parola. Il campanilismo è il principio opposto: se non fosse ostacolato dalla forza del rapporto, "creerebbe peculiarità infinitamente infinite in materia di linguaggio".[173] Saussure non ne fa menzione, ma si potrebbe fare l'osservazione opposta: se non fosse contrastata dal campanilismo, la forza del rapporto creerebbe in materia di linguaggio un'unità senza traccia di ciò che è stato unificato. È così che Jules Ronjat ha potuto dire della lingua comune o koinè che è una "moneta di scambio senza impronta e che è corrente ovunque". [174] Allo stesso modo, la lingua giovannea riflette l'elemento particolaristico di una teologia o di una scuola, la scuola giovannea, nello stesso momento in cui si esprime nella koinè rappresentata dal greco postclassico. L'estensione e la coesione del linguaggio teologico è resa possibile da una chiave di decodifica presentata nel prologo del Vangelo (Gv 1,1-18): «Il prediscorso è uno strumento di controllo della decodificazione. Dirige la lettura, difende il testo da fraintendimenti e interpretazioni errate. [175] Zumstein situa così il prologo a un "livello metalinguistico",[176] che mira a stabilire "il quadro ermeneutico in cui questa storia deve essere letta".[177] Così come abbiamo insistito nell'introduzione sul fatto della variazione, possiamo qui sottolineare la tendenza del linguaggio a distinguersi, non solo nel discorso, ma anche nel discorso, in questo caso l'uso particolare che l'autore del Vangelo di Giovanni fa del linguaggio.

L'ermeneutica non si occupa mai di un linguaggio disincarnato, avulso dal contesto dell'enunciazione. Il linguaggio non è un linguaggio di pura intellezione proprio nella misura in cui l'intellezione deve provvedere a quest'opera di reincarnazione, dare sostanza al contesto dell'enunciazione, mentre in ultima analisi mira a proporre un significato rinnovato per il tempo e il contesto di ricezione prevista. Le lingue minoritarie, poiché portano con sé il particolarismo, conservano la traccia di questi due principi nell'azione, elementi di relazione così come di campanilismo, forniscono un surplus di informazioni: come un libro di testo sulla storia del pensiero, contribuiscono a ricordarci che gli enunciati sono legati alle scuole, a un'epoca, insomma ai suoi contesti di enunciazione e di ricezione. Avrebbero anche un vantaggio, e cioè che, complice il pregiudizio che li colloca dalla parte particolarista del prisma, si denunciano come appartenenti a questa incarnazione, mentre l'uso della nozione di linguaggio, sganciato dalle particolarità, oscura questi elementi di contesto, quando la koinè non è semplicemente l'imposizione di un "campanilismo" che si presenta come un linguaggio comune[178].

 Poi, il prologo di Gv colloca la nozione di Logos in un rapporto con Dio. Ritroviamo la dimensione relazionale già descritta, e sulla quale ritorniamo solo per staccare completamente la nozione di Logos da quella di linguaggio inteso come grado di astrazione nei confronti dei linguaggi. Qui, però, il rapporto non è più tra il Creatore e le sue creature, come nei racconti della creazione, ma tra il Padre e il Figlio[179]. C'è sì un certo grado di astrazione, poiché il prologo ci invita a interrogarci sul rapporto tra le due persone divine, ma, allo stesso tempo, l'incarnazione ci impedisce di situare questo rapporto come un rapporto tra due astrazioni, il divino e il linguaggio, l'Uno (il Padre) e l'Uno (il linguaggio). Il rapporto non può essere quello tra l'Uno e i Molti. Il dogma trinitario è infatti quello del Dio uno e trino, tre volte uno. Tutt'al più, possiamo ricordare che l'incarnazione tinge la nozione di Logos in un modo che ci impedisce di vedere in essa una proto-lingua originale o una lingua che potrebbe essere totalmente astratta dalle sue condizioni di enunciazione, da qualsiasi contingenza. È vero che la persona divina non è soggetta alla contingenza, ma nella misura in cui vuole manifestarsi nella contingenza, non è opportuno reintrodurre, con l'assolutizzazione di certi linguaggi, alcuna pretesa di accostarsi al Logos.

La dimensione linguistica è dunque indotta non tanto dalla nozione di Logos, quanto dal rapporto presentato da Gv 1,1: «Se c'è qualcosa di Dio da percepire, è la sua dimensione di Verbo. Questo ha tre conseguenze. Innanzitutto, il Dio del prologo è un Dio che comunica se stesso. Poi si comunica con un linguaggio articolato. Fin dall'inizio, Dio è percepito come il Logos, cioè come discorso, come domanda, come dono di senso (e non come forza, come potenza, come mistero, ecc.). [180] E' questo dono di significato che vorremmo qui conservare in relazione al pluralismo linguistico, in particolare come esposto da Zumstein, in quanto il dono del significato si distingue dalla forza o dal potere da una parte e dal mistero dall'altra.

 

 

         b. Dono del significato e del linguaggio

 

Il dono del senso, intrinsecamente legato alla dimensione relazionale della Parola, ben si concilia con una definizione del linguaggio del rapporto come linguaggio in cui ciascuno si sforza di avvicinarsi al linguaggio dell'altro, senza rinunciare completamente al proprio linguaggio. In nessun caso la dimensione relazionale potrebbe accontentarsi dell'abbandono da parte di una delle due parti del proprio linguaggio a favore del linguaggio di un'altra che imporrebbe il proprio. Il dono del senso, dunque, sta nel fatto che una delle due parti – a partire da Dio – comunica tra loro. Il linguaggio articolato non va quindi inteso come un linguaggio superiore, più raffinato dell'altro, ma come un linguaggio che conserva una traccia di ciò che comunica se stesso. Pertanto, l'esercizio di traduzione riguarda tanto la trascrizione nella lingua di destinazione quanto il mantenimento di qualcosa della lingua di partenza. Le lingue minoritarie, soprattutto quelle che possono ancora sperimentare il dialettolismo, hanno familiarità con la ginnastica di farsi sentire e di stare con il proprio interlocutore in un luogo di mezzo. Considerare le lingue a questo livello, quello della sociolinguistica, non significa dunque rimpiangere quella che sarebbe la loro mancanza di astrazione o la loro ambiguità, ma intersecarsi con il dibattito su ciò che costituisce l'oggettività dell'oggettività rivendicata o della soggettività assunta ed esposta. Nella teologia protestante, l'incontro a metà strada tra un Dio che comunica se stesso e l'umanità mal si concilia con l'idea di uno sforzo, anche asimmetrico, tra le due parti in causa. Il punto centrale è infatti il Logos, Gesù Cristo, nel quale Dio non solo comunica se stesso, ma porta l'umanità al punto centrale.

In questo contesto di dono di senso, la riflessione sull'ambiguità del linguaggio sembra essere prima di tutto lo statuto del linguaggio, e corollario dei linguaggi, come mediazione. Mentre Dio comunica Se stesso attraverso la Parola, alcune teorie del linguaggio hanno posto maggiore enfasi sulla fondamentale inadeguatezza del linguaggio a rendere conto di Dio. Questo è particolarmente vero per Agostino, che ha sottolineato l'ambiguità fondamentale del linguaggio fino a criticarlo come mezzo di insegnamento[181].  Più recentemente, Eberhard Jüngel si è occupato meno dell'inadeguatezza del linguaggio che della dialettica della presenza e dell'assenza di Dio: la questione generale della teologia è il rapporto che Dio ha con il linguaggio umano, cioè «il rapporto del linguaggio umano con un Dio che deve essere considerato,  se parla, come uno che parla da se stesso"[182] La Parola di Dio è allo stesso tempo qualcosa di irriducibile al linguaggio umano e tuttavia sceglie di esprimersi attraverso il linguaggio umano. Jüngel riformula questa dialettica, che è tanto quella del velare e dello svelare, quanto segue: «Fino a che punto si può dire del linguaggio umano che esso dà a Dio l'accesso al linguaggio?».[183] La questione, come estensione della nostra ricerca, potrebbe essere quella di reintrodurre qui la nozione di pluralismo, e in ogni caso, sulla base della testimonianza scritturale, di rifiutare una velatura che verrebbe attribuita al pluralismo linguistico. L'ordinamento delle lingue a Dio e, di conseguenza, il loro statuto teologico si preoccupa quindi solo di interrogarsi sul rapporto tra il Logos e il Figlio, in altre parole, di avvicinarsi all'economia del Verbo e dell'Incarnazione[184]. Questo tentativo di distinguere tra il Logos e il Figlio si trova in particolare nell'ambito della teologia religiosa per rendere conto del pluralismo religioso. Se il Logos, come Cristo, si è manifestato in Gesù di Nazareth in modo unico e centrale, non gli è proibito di manifestarsi di nuovo e altrove. La comunicabilità di Dio poteva assumere altre forme, senza negare l'evento unico di Gesù Cristo. Mentre Gesù Cristo è la Parola di Dio, una Parola di Dio può tuttavia essere ascoltata in altre religioni. La teologia delle religioni può così trovare il modo di risolvere un pluralismo che non trova una diretta giustificazione scritturale. Al confronto, il pluralismo linguistico si accontenterebbe della perfetta adeguatezza tra il Logos e il Figlio, del Verbo incarnato in un uomo particolarissimo, e di un pluralismo linguistico che non solo accenna alla Parola di Dio, ma è da essa preparata – se vogliamo vedere nella scelta dei Dodici una prefigurazione della Pentecoste. In questa logica, concluderemmo qui che le lingue hanno uno statuto teologico tanto strettamente associato alla Parola, materialmente, fattualmente, partecipando allo svelamento (il dono del senso) più che al velare, mentre vedremmo nella riflessione filosofica sul linguaggio una tendenza più metafisica, un approccio più speculativo che in connessione con la rivelazione.

 

            c. Lo Spirito

           

Se si spera così di aver mostrato che le lingue possono essere legate sia al Padre, il Creatore in quanto comunica se stesso, sia al Figlio, Logos in quanto dono di senso, la terza persona della Trinità è percepita più spontaneamente dai teologi come la persona d'elezione rispetto alle lingue nella loro dimensione pluralistica. I teologi si affidano alla testimonianza delle Scritture. Qui troveremo la nozione del dono delle lingue. Mentre il Logos ci porta a interrogarci sul rapporto tra il Padre e il Figlio, lo Spirito si presenta piuttosto come la "dimensione animatrice"[185] che agisce a livello della persona umana, ma anche delle relazioni tra le persone umane. Questo è ciò che Amos Yong sottolinea quando descrive uno Spirito che coordina la dimensione personale e quella interpersonale. Mentre abbiamo sottolineato quanto le lingue – e non solo la nozione di lingua – abbiano a che fare con le prime due persone della Trinità, la nozione di "lingue" ha una risonanza particolare quando parliamo di dimensioni personali e interpersonali. Per esplorare i legami tra i linguaggi e lo Spirito, riprendiamo i tre paradigmi proposti da Amos Yong per analizzare la terza persona della Trinità presentata come personalista, naturalistica e pluralistica[186]. Ci avviciniamo al personalista attraverso la nozione paolina di carisma; il naturalista attraverso la nozione di organo formativo del pensiero; e, infine, il pluralistico attraverso la nozione di effusione. 

 

         1. Lo spirito personalistico: i carismi

 

Se lo Spirito si fa conoscere come forza animatrice, ordinando l'autocoscienza alle relazioni interpersonali[187], che si può tradurre nel fatto che lo Spirito dirige verso gli altri e che la conoscenza di sé passa attraverso la conoscenza di Dio, Paolo arriva a descrivere proprio il modo dell'agire di Dio attraverso l'umano. Per fare questo, l'apostolo ricorre alla nozione di carisma. L'articolazione tra l'uno e i molti è fatta qui nella forma del diverso e dello stesso: "C'è diversità dei doni della grazia [διαιρέσεις χαρισμάτων], ma è lo stesso Spirito [τὸ δὲ αὐτὸ Πνεῦμα]; diversità dei ministeri [διαιρέσεις διακονιῶν], ma è lo stesso Signore [ὁ αὐτὸς Κύριος]; C'è una diversità di modi di agire, ma è lo stesso Dio che opera tutto in tutti. (1 Cor 12,4-6). L'uso della nozione di carisma è quindi un'occasione per un'articolazione tra la diversità (διαίρεσις) dell'attuazione e la stessa, il capomastro. Il verbo ἐνεργέω (essere all'opera) richiama il fine ultimo dell'azione divina, οἰκοδομή (edificazione). Il dono delle lingue, la diversità dei doni, non è un fine in sé, ma un mezzo. Il molteplice non è il modo di espressione dell'uno, ma un possibile modo di espressione dell'uno tra gli altri. Tuttavia, quando si tratta dell'azione divina, c'è una corrispondenza tra sostanza e forma, e l'uso della diversità è da sottolineare tanto quanto la celebrazione del carisma e del ministero. La nozione di διαίρεσις significa anche divisione, distribuzione, differenza[188]. La parola ricapitola così: (1) la divisione nel senso in cui l'abbiamo vista in Gen 10-11 come organizzazione della creazione; (2) azione distributiva; 3° la valutazione della differenza. La dimensione distributiva che meglio sintetizza la nozione appare dunque tanto come modalità di azione dello Spirito quanto come espressione della giustizia distributiva, se non addirittura della sua celebrazione. Questa triade, che rende la nozione paolina, è anche in armonia con una concezione di una grammatica universale (UG). Lo stesso non solo si esprime attraverso la variazione, ma rivela anche nella variazione un riflesso della giustizia che siamo chiamati a costruire. Il linguaggio, da e nella sua diversità, è una prefigurazione del mondo da costruire.

 

         2. La mente naturalistica: l'organo formativo del pensiero

 

Amos Yong descrive, attraverso il secondo paradigma proposto, lo Spirito come un approccio naturalistico può concepirlo. Il teologo definisce monistico l'approccio naturalistico[189] e lo collega alla rivoluzione cartesiana. Questa logica appare riduzionista in quanto la diversità celebrata attraverso lo spirito personalista diventa, attraverso l'approccio naturalistico, la manifestazione di fenomeni, o anche di semplici epifenomeni. Qualcosa si è perso, e vale la pena chiedersi quale sia il costo di una tale riduzione, come fa Yong: "Il prezzo di un tale naturalismo è giustificato se, alla fine, le molte menti sono tutt'al più solo epifenomeni, riducibili alle macchinazioni del mondo materiale?"[190] Il rapporto tra lo spirito naturalistico e le lingue ricorda molto la nozione humboldtiana di linguaggio, la cui funzione è quella di essere "l'organo che dà forma al contenuto del pensiero".[191] Questo approccio razionalista è ambiguo. Sul piano teologico, essa vira verso lo speculativo cercando di precisare in modo quasi meccanico il nesso tra, da una parte, le produzioni dello spirito umano e dello Spirito Santo, e, dall'altra, la possibile interazione tra i due. D'altra parte, dal punto di vista delle lingue minoritarie, il discorso di Humboldt tende a sostenere i meriti della diversità. Il corollario della definizione humbodltiana è, infatti, che "l'essenza del linguaggio consiste nel riversare la materia del mondo fenomenico sotto forma di pensieri".[192] Il tentativo riduzionista viene preso in contropiede: quello che era un epifenomeno riducibile a una regola della scienza superiore diventa un fenomeno, un oggetto della scienza e degno della scienza. Questa idea di mediazione del linguaggio e della sua organizzazione della percezione potrebbe essere estesa, in una seconda fase, alla narrativa e, più in generale, alla semiotica. La diversità linguistica, di per sé, spiega un sistema di significati che è più ampio dei messaggi che trasmette. C'è un'eco di questo allargamento della sociolinguistica alla semiotica in teologia. Le teologie della liberazione e, più recentemente, le teologie contestuali hanno sottolineato la necessità di narrazioni radicate in realtà e tradizioni diverse: "La teologia della liberazione ha così portato alla luce temi trascurati nella tradizione cristiana tradizionale. E' stato importante recuperare "storie alternative", siano esse trascurate o sepolte. [193] L'approccio naturalistico allo Spirito, nella sua espressione più compatibile con la teologia, tenderebbe dunque a confermare lo statuto teologico delle lingue come fenomeno in cui lo Spirito si manifesta, ma anche come fenomeno che permette di pensare lo Spirito, o meglio ancora, come fenomeno in cui lo Spirito emerge nello spirito umano. Ogni impoverimento della diversità diventa un'occasione perduta per gioire di una manifestazione dello Spirito.

 

         3. Lo spirito pluralistico: l'effusione

 

Amos Yong avvicina il paradigma naturalistico al tema del disincanto nei confronti del mondo[194]. Una pneumatologia pluralistica sarebbe, per simmetria, quella del reincanto del mondo. Da parte nostra, abbiamo visto che la dimensione personalista dello Spirito può non essere quella di una cosmologia personalista, ma piuttosto quella dell'articolazione tra dignità personale, relazioni interpersonali e prefigurazione della giustizia distributiva. Abbiamo anche visto che una dimensione naturalistica dello Spirito, con tutti i suoi limiti, può invertire la tendenza riduzionista. La dimensione pluralistica, invece, dovrebbe essere l'espressione dello Spirito nella sua pienezza, nella sua sovrabbondanza. Da questo punto di vista, la dimensione riduzionista trae le conseguenze del capovolgimento riduzionista. Abbiamo scelto di parlare dell'effusione, termine che ci permette di fare il collegamento tra Babele (confusio/ σύγχυσις) e l'effusione della Pentecoste. In linea con il significato primario di effusione – il versamento di un liquido – il paradigma pluralistico è quello di una maggiore fluidità: "Il pluralismo contemporaneo accentua così il modo in cui i vari quadri culturali e linguistici funzionano per consentire ai loro aderenti di immaginare, impegnarsi e interagire con un mondo pieno di Spirito".[195] Questo modello non è solo cosmico, ma trova espressione a livello locale, nella città. Ha una traduzione concreta e la pretesa di porsi come modello di convivenza. Questa dimensione, che è anche quella del pluralismo dello Spirito, reintroduce un certo grado di naturalismo, in cui le lingue possono trovare il loro posto. In questo contesto, trascendenza e immanenza si intrecciano in una logica panenteistica. I linguaggi, all'incrocio tra spirituale e contingente, incarnano, nella parte più intima dell'esperienza umana, la dimensione spirituale della realtà. Voler ridurre la diversità e il gioco della variazione linguistica è qui rifiutare un'esperienza fondamentale di questa confusione/effusione che replica nell'intimità della persona umana il tessuto o il processo cosmologico.

            Come si vede, considerare le lingue dal punto di vista della loro materialità, della loro espressione nel tempo, della loro tendenza a variare incessantemente, non è una divagazione fuori dal campo dell'astrazione, ma al contrario un'incursione nel mondo della divisione creativa, della giustizia distributiva, dell'accettazione della differenza. In questa logica, i linguaggi sono, nella parte più intima dell'esperienza umana, ordinati a Dio in quanto possono permettere alle sue creature di sperimentare sia il mondo da costruire, sia di rendersi conto che questo mondo a venire non è una costruzione fissa e definitiva, ma già fondamentalmente inscritto nel tessuto cosmico. Le lingue, e in particolare le lingue minoritarie, esprimono qualcosa di questo mondo facendo sentire la possibilità di una comunicazione che mantenga la diversità, non presupponga la riduzione o la cancellazione della differenza. Questa possibilità chiama ogni persona a non scambiarsi un messaggio disincarnato, ma tanto a comunicare a se stessa quanto ad accogliere colui che comunica se stesso.


 

III. Universalismo o comunione?

           

            La valorizzazione della diversità linguistica non è solo una traduzione ecclesiologica, ma anche quella di una Chiesa che deve a sua volta incoraggiare e valorizzare la realtà, la diversità delle lingue nella loro forma più particolare, costituisce l'esperienza fondante, quella in cui la Chiesa ha saputo cogliere se stessa come realtà. Abbiamo visto, infatti, nella nostra esegesi teologica di At 2, che la realtà della Pentecoste è vissuta e vissuta attraverso il pluralismo e la variazione linguistica.  Amos Yong parla della comprensione interculturale e della koinonia resa possibile dallo stesso Spirito[196]. La nozione di κοινωνία ("comunione", "partecipazione") deve essere un'occasione per dissipare un'ambiguità, ciò che ci si può aspettare o comprendere da ἡ κοινὴ διάλεκτος, che può essere fonte di maggiore ambiguità, teologica e linguistica. La koinè è la lingua comune? Che cosa significa per la Chiesa avere un linguaggio comune?

 

            Ha. Un linguaggio comune o una conversazione comune?

 

            Il greco postclassico è chiamato koinè a causa della frase ellenistica: ἡ κοινὴ διάλεκτος, il dialetto comune. Richiamare questo significa sottolineare la dimensione dialogica[197] non solo come obiettivo del linguaggio comune, ma anche come condizione per il suo sviluppo e la sua persistenza. In questo modo si smentisce a priori l'idea che la lingua comune possa essere in origine la lingua di una delle parti. Infine, si tratta di riscoprire la dimensione distributiva, presente nel κοινωνία, e che abbiamo incontrato nelle nozioni bibliche di διαίρεσις (divisione, distribuzione, differenza), διάφορα (Rm 12,6) e διασπορά (Gen 11). Il prefisso dia- si confronta con il prefisso syn- (σύγχυσις, Gen 11) e con la nozione di fusione, sia espressamente come in Gen 11, sia per metafora, quella di effusione in Atti 2. Ma se l'azione di versare un liquido è evocata dalla radice χέω, è sempre per escludere del tutto (l'intensivo è uno dei valori dei prefissi syn- o-) la fusione o fusionale. Qui troviamo la distinzione fatta da alcuni linguaggi tra mescolarsi e mescolare, tra fondere e comunicare.

            La distinzione tra fusione e messa in comune è illustrata nella Chiesa: perché la Chiesa, che è fondamentalmente plurilingue e segnata dalla diversità fin dalla nascita, è superata da una concezione ristretta dell'unità? Naturalmente, la Chiesa rimane fondamentalmente multilingue, e l'opera di traduzione della Bibbia serve a preservare le lingue. Ma la Chiesa non cede alla nozione di un linguaggio di comunicazione e di un linguaggio comune che può essere imposto da una delle parti? C'è una confusione tra lingua e linguaggio, ma il didattico Pierre Escudé ci ricorda che "le lingue sono soprattutto usate per concettualizzare (più che pensare) e per fare (più che comunicare)"[198].

Le lingue, sotto la guida dello Spirito e al suo servizio, servono a dialogare con la realtà. Questo impegno spirituale nei confronti della realtà, dell'ordine della concettualizzazione e dell'azione, si sovrappone tanto a ciò che la teologia sa dello Spirito, che chiama all'azione, ma anche a ciò che Amos Yong dice dell'"immaginazione pneumatologica"[199]: i linguaggi servono a concettualizzare, non nonostante la loro varietà, ma nella loro stessa pluralità e attraverso di essa. Questa realtà, che è anche la realtà della Chiesa, deve essere usata per manifestare l'opera dello Spirito e l'opera di edificazione a cui siamo chiamati. L'opera di concettualizzazione della Chiesa si compie già e sempre in questo incontro, in questo dialogo, nell'interlingua[200], ma la Chiesa non può assumere per conto proprio 1° l'opera di sigillare le lingue a favore delle costruzioni nazionali; (2) la concezione di una gerarchia delle lingue sulla base della presunta universalità di una di queste lingue o della sua maggiore disposizione all'astrazione; 3° Né chiudere gli occhi di fronte all'opera di sradicamento lingue dalla lingua dominante, che spesso diventa la lingua delle chiese nazionali.

 

            B. L'universalisme

 

Useremo il termine "universalismo" nel senso di dottrina o ideologia che vede l'universale come un ideale da raggiungere. Noi vi opponiamo la nozione di "universale" come stato di cose. L'universalismo corre il rischio di imporre i propri valori alle altre culture, presentandoli come valori destinati ad essere adottati da tutti in modo uniforme. Lo vediamo, a livello ideologico, come l'equivalente di ciò che Pierre Escudé descrive come il fatto di presentare un campanilismo come una forza di amplità[201], di far passare la lingua di una comunità come la lingua comune per eccellenza. Ci chiederemo quali concezioni la Chiesa stia spingendo nella direzione dell'universalismo, e perché questo sia problematico.

 

         1. Progettazione unitaria

 

Dio è uno. La Chiesa è una? L'unità è il modo di essere dell'Uno? Il molteplice è il modo in cui Dio incontra l'essere umano[202]. Nel senso dell'adeguatezza tra Dio e la Chiesa, non si può essere tentati di vedere nel molteplice il modo in cui anche la Chiesa è chiamata all'incontro con l'uomo? Toccando indirettamente lo scopo universalistico della Chiesa, la questione dell'universalismo è stata sollevata in particolare in connessione con la teologia di Paolo, più attraverso la filosofia che attraverso la teologia stessa[203]. Alain Badiou ci invita così a vedere Paolo come il fondatore dell'universalismo[204], essendo il pensiero di Paolo organizzato, secondo il filosofo, intorno alle nozioni di uno, universale e particolare, dove l'uno e l'universale si oppongono al particolare. Michel Quesnel vede in Badiou il fautore di una delle due correnti di lettura filosofica di Paolo[205]. Insieme a Giorgio Agamben, Alain Badiou rappresenta "il paradigma di un cristianesimo universalista".[206] L'esegeta considera il[207] binomio antitetico di unicità, universalità e particolarità, "come un modello interpretativo del pensiero paolino". Ebraismo e paganesimo rimanderebbero a una concezione del mondo in cui si giustappongono popoli e condizioni (greci, ebrei, uomini, donne, uomini liberi, schiavi, ecc.): il molteplice è qui l'espressione di un "regime senza Cristo".[208] A quest'ultimo si oppone un regime in Cristo, un mondo in cui "il particolare ha perso la sua legittimità".[209]  L'evento unico di Gesù Cristo è unificante. Michel Quesnel, sulla scia di Alain Badiou, riprende[210] la nozione di singolare: "A differenza del particolare, il singolare è il fondamento dell'universale".[211]

La preoccupazione di questa linea filosofica è quella di lottare contro ogni relativismo. Si tratta di preservare l'unicità della verità. A questa preoccupazione si accompagna un monito contro le implicazioni politiche del relativismo, ma anche la sua origine ideologica[212]. Equiparare la riconciliazione al fondamento dell'universalismo, tuttavia, rischia di essere una riduzione insoddisfacente dal punto di vista teologico. Il seducente modello interpretativo del pensiero paolino è inefficace, o almeno deludente, se si considera il kerygma. L'incarnazione può essere messa in parallelo con la celebrazione di un universalismo omogeneizzante, un'universalità che non porta più alcuna traccia dell'apporto del particolare? La retorica paolina, amante del paradosso, ci porterebbe a vedere nell'Incarnazione un invito alla disincarnazione, all'astrazione in nome dell'unicità della verità? Questo significa dimenticare che in risposta alla domanda di Pilato: "Che cos'è la verità?" (Gv 18,38), propriamente greco o romano, Gesù non risponde.

 

         2. Idealismo, platonismo, assolutizzazione

 

Il Gesù che non risponde a Pilato proclama: "Io sono la verità". Questa verità, che il filosofo vuole proteggere dal relativismo, è stata abbandonata dai suoi discepoli, umiliata, crocifissa. Ma la croce è il passaggio dal particolare all'universale, la crocifissione dell'ebreo galileo è diglossica, e la resurrezione è l'avvento dell'universale? Questa è, naturalmente, una lettura totalmente impossibile nella teologia cristiana. E' insoddisfacente anche da un punto di vista filosofico. Celebrare il multiplo non significa rivendicare privilegi o status egemonico per l'individuo. L'introduzione della nozione di singolarità qui è più che altro un trucco. La singolarità, nel campo dell'unico, della particolarità, nel campo dei molti, sembra distinguersi solo per questa pretesa, la pretesa della particolarità rispetto a qualsiasi superiorità sulle altre particolarità. Infatti, le lingue minoritarie – il molteplice che si esprime a Pentecoste – non sono la pretesa di una sorta di egemonia, ma il rifiuto di essere omologate, annientate, di non essere riconosciute proprio come persona, come singolarità. Si dirà che l'universalismo cristiano riconosce proprio la persona, il destino dei comunitarismi angusti, e tanto meglio. Ma non è un po' affrettato dimenticare che questa liberazione dai comunitarismi identitari deve riguardare tutti i comunitarismi identitari, compresi quelli della maggioranza? La narrazione nazionale, i modelli patriarcali e il linguaggio imposto sono l'occasione di tanti comunitarismi identitari, a meno che l'universale non corrisponda alla maggioranza e il particolare alla minoranza. Infatti, la Chiesa è stata istituita a Pentecoste dalla ruaḥ proprio con l'inclusione di tutte le lingue, e ancora oggi la Chiesa si sforza di parlarle tutte. È in questo, tra l'altro, che è cattolica, e non per la pretesa di incarnare qualche fatto maggioritario in cui la teologia naturale tende talvolta a cercare la sua giustificazione.

Nonostante il contributo greco al pensiero della Chiesa, nonostante il contributo del platonismo alla teologia cristiana, quest'ultima è molto chiaramente distaccata dalla filosofia sulla questione della verità. Alla dimensione apologetica di una filosofia che difende la verità come assoluta corrisponde una teologia che proclama Dio crocifisso, Dio che si limita, Dio che non vuole essere adorato come un idolo. Questo invito alla deassolutizzazione incontra l'essere umano nella sua persona, dove la realtà sociale e storica trova il suo posto e di cui non deve essere prigioniero. Questo invito non è, tuttavia, un invito ad aderire a una realtà maggioritaria il cui merito sarebbe tutt'al più quello di sussumerne le particolarità.

 

         3. Dualismo

 

 

La seconda linea di filosofi identificata da Michel Quesnel "riflette sulla concezione paolina del corpo".[213] Ci sembra significativo evocare, per revocarlo, il dualismo implicito nella distinzione tra universale e particolare. Il corpo è, infatti, il luogo naturale dell'individuo. Il corpo è necessariamente nel tempo e nello spazio. Rimane, dopo la morte, prigioniero del tempo e dello spazio. L'universale apparterrebbe dunque all'anima. Le lingue egemoniche sarebbero quindi quelle che più si avvicinano a un principio disincarnato. Il particolare, d'altra parte, farebbe parte del corpo e le lingue minoritarie dovrebbero essere affiancate. Questa applicazione della dicotomia corpo-anima alle lingue è abbastanza comune. Celebreremo un linguaggio capace di esprimere sia il concreto che l'astratto, o anche di rendere concreto l'astratto, e di presentare il concreto aureolato con il potere dell'astrazione. Di fronte a ciò, vale probabilmente la pena sottolineare che il dualismo è certamente un contributo patristico, ma quindi più greco che scritturale.

Quando Paolo parla del «corpo pneumatico» (1 Cor 15,44), a parte il fatto che la frase σῶμ απνευματικόν si riferisce a uno stato del corpo dopo la morte, l'opposizione tra anima e corpo espressa in 1 Cor 15,35-58 è di nuovo inconciliabile con qualsiasi dualismo, tanto intimamente lega corpo e spirito, e, per il suo carattere escatologico,  getta retrospettivamente sul corpo terreno la luce dell'ideale celeste. L'anima, d'altra parte, è confinata nella sua definizione più materiale e deperibile. Dieter Zeller, confrontando 1 Cor 15 con Rm 2, la mette in questi termini: "Ciò che i due passi hanno in comune è la concezione dell'"anima": è il principio di una vita che è limitata solo a ciò che è terreno. [214] L'anima è qui intesa come il principio che permea il corpo per tutta la durata della vita, mentre lo spirito è ciò che permea lo stesso corpo dopo la morte: "Il corpo pneumatico non è costituito da 'Spirito' – così come il corpo mentale è costituito da una sola anima – ma è completamente influenzato e impregnato dallo Spirito di Dio. Naturalmente, questo ha conseguenze per la natura (ποιότης) del corpo.[215] L'insistenza scritturale sul corpo, sia che la Scrittura veda in esso l'intera vita di una vita, sia che preveda una risurrezione di quel corpo, è un'altra forte àncora nel particolare o nel singolare. Rifiutando la razionalizzazione o l'astrazione ultima del corpo, la Scrittura ci proibisce di confondere troppo rapidamente il carattere universale del cristianesimo – il suo cattolicesimo – con l'universalismo filosofico. Il posto che il corpo occupa ancora dopo la morte è un ulteriore richiamo a rispettare il posto del corpo nell'economia della salvezza. Come ci ricorda Pierre Bühler: "La salvezza si realizza attraverso le realtà sensoriali: la Parola è pronunciata; si consumano i sacramenti; I gesti di fede, di amore e di speranza si compiono in comunità di persone visibili. [216] Il linguaggio ereditato probabilmente non è l'ultima di queste realtà sensoriali.  E la società forgiata da una lingua non è l'ultima delle comunità visibili.

 

 

         4. Particolarismo occidentale

 

Può la teologia delle religioni difendere un particolarismo occidentale? "La Chiesa . . . ha una consapevolezza molto più acuta della peculiarità storica della cultura occidentale, quella stessa che è stata la cultura dominante alla base della teologia cristiana per venti secoli. [217] Tale affermazione sembra ignorare la diversità culturale europea per ridurla a un dialogo certamente unico e benefico, ma che non corrisponde a una reale diversità culturale: «Come il Vangelo, secondo la sua vocazione universale, ha superato la dualità di ebreo e greco, oggi deve andare oltre la dualità dell'occidentale e del non occidentale. [218] Manterremo la seconda parte della dichiarazione, sottolineando, tuttavia, che l'Europa non è tutto l'Occidente, ma anche che dobbiamo astenerci dall'applicare un'identità occidentale a tutta l'Europa. Tutti gli europei e tutte le culture europee, soprattutto viste dal punto di vista delle culture indigene e minoritarie, non devono essere confuse con la storia del pensiero occidentale. Il fatto che queste culture abbiano dovuto soffrire per l'imposizione del pensiero occidentale dovrebbe rendere impossibile confonderle con il pensiero occidentale. Il tertius quis, "cioè l'altro non occidentale che non è né ebreo né greco",[219] può essere basco, frisone o salentino. L'ignoranza della propria diversità linguistica e culturale, valorizzata anche dagli stessi teologi delle religioni, corre il rischio di accostarsi alle altre culture come a blocchi omogenei e monolingui. In effetti, vale la pena interrogarsi su ciò che Claude Geffré chiama "il felice matrimonio tra cristianesimo ed ellenismo".[220]

C'è una forte riluttanza, anche da parte del pluralismo religioso, a mettere in discussione l'elemento egemonico, cioè la dimensione occidentale della teologia: "Con il pretesto dell'inculturazione, non dovremmo promuovere una sorta di regionalismo culturale che farebbe del cristianesimo una religione sempre dipendente da una nuova cultura".[221] Si possono capire le tensioni. La preghiera della teologa cinese Hua Wei, "Che lo Spirito di Dio aiuti la Chiesa mondiale (globale) in Cina a non essere 'cristianesimo in Cina', ma ad essere 'cristianesimo cinese'", [222]richiama l'intreccio delle questioni linguistiche e culturali. Questa preghiera può essere intesa in due modi completamente contraddittori. L'acculturazione può essere un segno di piena adesione da parte di una cultura, in questo caso le culture cinesi. In questo senso, è il rifiuto di un'imposizione, in questo caso l'imposizione non del cristianesimo, ma della ricezione occidentale del cristianesimo. Ma l'acculturazione può anche essere il rifiuto della portata universale e dell'univocità del messaggio cristiano. È facile immaginare che Hua Wei inviti la prima soluzione, e non la seconda. Allo stesso modo, si può comprendere l'appello a "mantenere l'unità dello spirito umano"[223] contro una polarizzazione del mondo tra, da una parte, i "pericoli del regionalismo"[224] e quelli di un "mondo sempre più indifferenziato e unidimensionale".[225], è più difficile seguire Claude Geffré in quella che sembra essere un'essenzializzazione di certe figure culturali. È incomprensibile che certe parti della teologia planetaria rappresentino tutt'al più una curiosità regionale, se non conducono la mente umana, niente di meno, alla sua disintegrazione e al suo sgretolamento, mentre l'elaborazione occidentale da sola garantirebbe l'integrità del pensiero teologico.

Le dinamiche che attraversano le questioni teologiche ed ecclesiali contemporanee trovano in questo molti accenti sociolinguistici. La missiologia è stata la prima a rendersi conto di un capovolgimento della missione. Ciò è dimostrato da una breve sintesi del recente lavoro relativo alle questioni missionarie proposto da Amos Yong: "Mentre nessuno dovrebbe minimizzare il contributo dei missionari cristiani, specialmente nella conservazione delle lingue delle culture indigene (Sanneh 1989), non dovremmo nemmeno chiudere un occhio sui molti modi in cui i modi di vita non occidentali sono stati svalutati. [...] La maggioranza dei cristiani del mondo, che una volta erano oggetto della missione, sono ora impegnati in sforzi massicci per rievangelizzare il mondo occidentale. [...] D'altra parte, c'è anche la sensazione che le formulazioni teologiche contemporanee del cristianesimo rimangano dominate dalle forme e dalle espressioni culturali occidentali perpetuate dal movimento missionario. »[226]

Una teologia delle esperienze locali, del rispetto del vivente, della sua vivacità, ci fa riascoltare Gen 10-11 e la Pentecoste, l'opera dello Spirito nella varietà e nella variazione. Questo bisogno di giustizia, di un cattolicesimo (intendo il cristianesimo in quanto καθολικός) che non sia un universalismo imperfetto, ci invita all'invenzione, al nuovo – che a volte è la scoperta di ricchezze che già esistono e che dobbiamo smettere di distruggere – a sperare, quindi, in un'immaginazione che operi sotto il comandamento dell'amore per il creato.

 

C. Cattolicità

 

Le nozioni di cattolicità e di κοινωνία devono quindi essere ridefinite in connessione con ciò che Geffré presenta come una vocazione naturale della Chiesa all'universale[227]. C'è, a nostro avviso, un passo che non può essere fatto così facilmente tra ciò che, da una parte, nella vocazione della Chiesa, appartiene alla risposta alla volontà universale di Dio, e, dall'altra, appartiene a un universalismo discutibile. La volontà universale di Dio riguarda la salvezza, non l'omologazione, condannata ab initio dalla distruzione di Babele. Circa 1 Timoteo 2:4-6 ("Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità.  Dio è uno, unico anche il Mediatore tra Dio e gli uomini, Cristo che ha dato se stesso in riscatto per tutti"), Geffré ci ricorda che "da una parte, affermiamo la volontà universale di Dio, ma dall'altra affermiamo che non c'è salvezza al di fuori della conoscenza esplicita di Gesù Cristo".[228] Riguarda dunque la salvezza che si tratta dell'universalità. Inoltre, questa universalità è legata alla volontà di Dio. Questa è una delle ragioni per cui la Chiesa invisibile è universale, in quanto ricorda agli esseri umani la loro radicale uguaglianza agli occhi di Dio. Non è possibile dedurne che esista una volontà divina per la costruzione di una Chiesa universale realizzata attraverso l'omogeneizzazione e la distruzione dei particolarismi.

Contro il discorso escatologico che punta a una realizzazione indissolubile della comunità[229], con le sue implicazioni unitarie, va ricordato che la Chiesa "è nata universale".[230] I teologi parlano di universalismo prolettico. Ma non è meglio evitare di confondersi con qualsiasi nozione di universalismo e attenersi alla volontà universale di Dio, all'uguaglianza fondamentale degli esseri umani davanti a Dio e alla dignità condivisa di tutti? Così le teologie della liberazione hanno fatto largo uso della "visione paolina del corpo di Cristo, in cui tutti hanno il loro ruolo da svolgere", [231]mentre il ricorso alla nozione di universalismo ha portato, per interferenza, a offuscare la dimensione cattolica del messaggio cristiano. I teologi impegnati nella questione del pluralismo religioso hanno individuato i legami tra la cattolicità della Chiesa e l'assolutizzazione del cristianesimo. Alcuni, tra cui Hans Urs von Balthasar, hanno poi ritenuto, per fedeltà allo stesso messaggio cristiano, di "parlare della non cattolicità della Chiesa nella sua dimensione storica".[232] Balthasar non rinuncia, naturalmente, alla cattolicità della Chiesa nella sua dimensione storica, ma, nel contesto del dialogo interreligioso, individua nella questione della cattolicità una pietra d'inciampo. Il nostro approccio, distinguendo tra universalismo e cattolicità, tende a fare di quest'ultima un dato (e non un'elaborazione ideologica) capace di riconoscere fino a che punto i particolarismi possano essere riconosciuti come appartenenti allo stesso, e quindi non si frappongano all'unità. È l'omogeneizzazione, e la sua ingiunzione a rinunciare al particolare percepito come un ostacolo all'unità, che dà all'unità il senso distorto di "ciò che risulta dall'unificazione".

 

Esclusivismo e de-assolutizzazione

 

Se cristianesimo ed esclusivismo[233] sono  giustamente percepiti come contraddittori, a maggior ragione dovrebbe essere inconcepibile concedere alle lingue, frutto dello Stato-nazione, uno status che la Chiesa nega a se stessa. I teologi della religione si esprimono in questi termini: "Perciò non si deve dare al cristianesimo un'universalità che appartiene solo a Cristo".[234] In ogni caso, articolare l'immaginazione, la creatività e la speranza deve permettere non solo di ricollocare l'essere umano non come astrazione, universale che può essere plasmato e plasmato secondo l'ideologia, anche se promette la salvezza del creato, ma anche di ascoltare lo Spirito, principio di vivificazione, lievito della differenza, della novità e della giustizia. Pierre Gisel vede dunque nella rinuncia alle fantasie totalizzanti e omogeneizzanti un tema contemporaneo[235].

Se l'ingiustizia vissuta dai parlanti delle lingue minoritarie non può essere separata da certi impliciti teologici, come la comprensione storica delle nozioni di unità, universalità o un certo dualismo, e una messa in discussione di queste concezioni dottrinali è legittima, possiamo tuttavia notare un certo disaccoppiamento tra ortodossia e stile teologico. Così, come sottolinea Christopher Rowland, "da un punto di vista dottrinale, la teologia della liberazione si discosta poco dalla corrente teologica dominante".[236]Tag: Se seguiamo il teologo di Oxford in questo senso, le teologie della liberazione hanno saputo sviluppare un discorso a favore della diversità e del rispetto dei particolarismi senza negare il riferimento all'universale e senza sfociare in un certo relativismo. Allo stesso modo, l'insistenza delle teologie della liberazione sull'opera dello Spirito indipendentemente dalle istituzioni ecclesiali non ha messo in discussione l'attaccamento di molti teologi e attori di questo movimento alla Chiesa romana. La nostra posizione è anche quella di non vedere alcuna contraddizione tra l'universale e il particolarismo, e di invocare, come Aimé Césaire, un universale "ricco di tutti i particolari, l'approfondimento e la coesistenza di tutti i particolari".[237] Un approccio ortodosso alla questione porta a non contrapporre l'universale e il particolare, così come porta a non limitare l'azione dello Spirito alla Chiesa o al di fuori di essa.  Questo è ciò che ci ricorda Robert Jenson.  Se l'azione dello Spirito non può essere limitata soprattutto alla Chiesa e ai suoi rappresentanti, lo Spirito, soprattutto come "forza del futuro",[238] è all'opera anche nella Chiesa.  


 

IV. Il prossimo: tra lo straniero come "sfida teologica"[239] e il "fratello come grazia"[240]

 

 

"Il tiranno degli spiriti vuole cambiare le nostre lingue

Costringendoci a pregare in una lingua straniera:

Lo spirito della distribuzione linguistica ci chiama

Da pregare solo nella lingua naturale.

Sta nascondendo la candela segretamente sotto un muid:

Chi non si spiega è barbaro con gli altri,

Ma vediamo molto peggio nell'ignoranza estrema

Chi non comprende se stesso è barbaro con se stesso. »

 

Agrippa d'Aubigné, Le tragedie (1615)[241]

 

Il modo in cui Dio incontra l'uomo, e il modo in cui l'incarnazione ci permette di vedere Dio nel prossimo, hanno una risonanza particolare nei confronti delle lingue minoritarie, in quanto l'incontro con l'altro non può consistere nell'imporgli una lingua. Teniamo presente, come già stabilito, che è attraverso lo Spirito che Dio, nel periodo post-pasquale, incontra l'umano.

           

A. Essere l'estraneo di se stessi

 

Il processo di inautenticità che i parlanti di lingue minoritarie affrontano è dovuto a due impliciti: 1) la lingua è usata per comunicare (una funzione puramente utilitaristica della lingua); 2) Lo stesso è in grado di capire meglio lo stesso. Il primo implicito solleva la questione dell'utilitarismo, ma merita anche di essere denunciato per le sue sfumature socio-darwiniane: le lingue egemoniche assumono qui lo status di più adatte. Se dominano le lingue minoritarie, è perché il processo di selezione naturale le ha selezionate come le più adatte. Sarebbe facile dimenticare che le lingue minoritarie sopravvivono ancora oggi, e questo in condizioni che dimostrano una formidabile attitudine.

Ci è sembrato particolarmente pertinente confrontare questi due elementi impliciti legati al linguaggio con un'altra nozione, quella di prossimo, e in particolare con la nozione di prossimo esposta nella parabola del Buon Samaritano (Lc 10,25-37). Au τίς ἐστίν μου πλησίον; ("Chi è il mio prossimo?"; Lc 10,29) risponde: La tua domanda avrebbe dovuto essere: "Di chi sono il prossimo?" Tu sei il prossimo di colui al quale hai mostrato compassione, ἔλεος. Il prossimo così concepito non è il destinatario di ἔλεος, ma colui che ha mostrato ἔλεος (Lc 10,37). Da un lato, questa comprensione del prossimo mina la dimensione utilitaristica degli scambi umani. D'altra parte, la nozione di vicino disturba la comprensione della coppia dello stesso e dell'altro. La nozione sovverte questi due impliciti: 1) per il movimento stesso che la nozione descrive. Infatti, secondo la parabola del Buon Samaritano, non si tratta di tenere l'altro per un prossimo, ma di avvicinarsi all'altro, e così di farsi prossimo, di farsi prossimo. È un movimento che i parlanti di lingue che hanno mantenuto un forte tratto dialettale conoscono, anche se si tratta di un movimento, di un atteggiamento che non è loro riservato. Ognuno sa adattare intuitivamente il proprio livello linguistico al proprio interlocutore.  Adattare il proprio linguaggio alla comprensione del proprio interlocutore è forse anche il segno distintivo di una conversazione. 2) La nozione è sovversiva anche in quanto, derivando da un comandamento religioso, rompe il faccia a faccia tra l'uno e l'altro con l'introduzione del Tutto Altro. È quindi possibile porre la questione non in termini di universale (un linguaggio che è valido in ogni tempo e in ogni luogo), o in termini di comune (linguaggio comune), ma in termini di terzi. Si potrebbe già essere contenti di non essere condannati a un incontro faccia a faccia con uno sfondo circolare, ma la possibilità di una terza parte introduce anche la possibilità di una mediazione. Introdurre il Tutto Altro in relazione al prossimo, almeno nella teologia cristiana, apre nuovi problemi. Tanto per cominciare, il Tutto Altro può essere inteso come un terzo assoluto, totalmente estraneo alla coppia dell'altro e dello stesso. Se è del tutto diverso, non è "né ciò che lega né ciò che divide".[242] In secondo luogo, poiché questo "Tutto Altro" può naturalmente essere inteso come una delle metafore di Dio, la sua figura viene trasferita alla figura di colui che siamo chiamati a fare nostro [243]prossimo. Infine, la nozione dello stesso è ordinata alla conoscenza di Dio[244], tendendo così a negare all'io la sua dimensione di stesso.

Le lingue minoritarie sono quelle parlate da coloro che non sono completamente passati alla lingua egemonica. Coloro che hanno rinunciato alla loro lingua, a differenza di coloro che lo hanno fatto in nome della promozione sociale in particolare, si trovano in un interregno tra la cultura che vogliono fare propria, e questo proprio fondo che ora considerano estraneo. Va aggiunto che questo fenomeno non è necessariamente consapevole. In questo senso, l'idea di essere anche estranei a se stessi assume una dimensione molto concreta e intima. Il teologo Pierre Bühler dà alla questione un respiro più ampio, ma la sua affermazione è perfettamente comprensibile da un punto di vista sociolinguistico: "Devo affrontare il fatto che sono anche un estraneo di me stesso. Pertanto, se sono disposto a trattare adeguatamente l'estraneo che è in me, sono anche disposto a trattare adeguatamente l'estraneo che ho di fronte. [245] Questa "tematizzazione dell'alterità dal punto di vista del sé",[246] ripresa da Pierre Bühler sulla scia di Paul Ricœur, si adatta particolarmente bene al pluralismo linguistico, in primo luogo perché il pluralismo linguistico affronta la questione del linguaggio non come astrazione, ma nel modo in cui si manifesta; in secondo luogo perché, sempre in modo fenomenologico,  Da un lato, possiamo stabilire un legame tra l'irriducibile singolarità del sé e il fatto che è proprio in questa irriducibile singolarità del sé che siamo come gli altri, tra l'irriducibile profusione di dialetti locali e il fatto che, in questa irriducibile possibilità di singolarizzarsi pur rimanendo nel quadro di un linguaggio più ampio,  I dialetti e le lingue non sono diversi dalle altre lingue naturali. Questa consunta dialettica dell'altro e dello stesso è illuminata dalla teologia della creazione già menzionata. La sfida dello straniero ci ricorda non solo la dimensione relazionale, ma anche la vana ricerca di una conoscenza di sé che non sia prima di tutto una conoscenza di Dio, qui attraverso la figura dello straniero.

Avevamo già incontrato questo movimento di ritorno a se stessi attraverso l'altro, e avevamo detto che il nuovo – la novità dello Spirito – è ciò che ristora, ma anche ciò che riesce a stupire ciò che è tuttavia più familiare, il più intimo. Si pensi in particolare alla favola di Eisik[247]. La circolazione tra l'io, l'altro e lo stesso, l'uno e i molti, richiama la logica del ritorno: di fronte alla «filosofia greca che sostiene che solo il simile può riconoscere il simile, [...] C'è un'altra logica, questa biblica, che vuole che il dissimile riconosca l'altro nella sua alterità. [248] La radicale non-reciprocità che porta alla diglossia è un esempio estremo del rifiuto di riconoscere l'altro nella sua alterità. L'altro egemone non solo non ti riconosce nella tua alterità, ma la nega apertamente.

Può l'amore dei nemici arrivare al punto di sancire la propria fine? Contro tale idea, François Jullien afferma che "la tolleranza tra i valori culturali [...] non deve derivare (non deve semplicemente perché non può) dal fatto che ogni persona, persona o civiltà, ridurrebbe la rivendicazione dei propri valori o modererebbe la sua adesione ad essi, o addirittura relativizzerebbe le sue posizioni [...] ciascuno facendo uno sforzo e rasserenando le sue concezioni. [249] Questo rifiuto è necessario proprio per mantenere l'alterità e per rifiutare la fusione, che è la pura e semplice negazione del prossimo, la negazione che il prossimo non è mai stato il prossimo. Jullien, tuttavia, non sostiene la creazione di nuovi gruppi di inclusione ostili al gruppo egemone. Al contrario, il filosofo invita all'intercomprensione e alla collaborazione: "Tale tolleranza può venire solo da un'intelligenza condivisa: dal fatto che ogni cultura, ogni persona, rende intelligibili i valori dell'altra nel proprio linguaggio e, di conseguenza, si riflette su di essi – e quindi lavora anche con essi".[250] Lo riassume così: "La soluzione, in altre parole, non è nel compromesso, ma nella comprensione".[251] Tuttavia, questa comprensione viene rimossa non appena il linguaggio dell'altro viene considerato subordinato o facoltativo. La comprensione passa necessariamente attraverso l'intercomprensione, vale a dire attraverso il ritorno alle lingue naturali intese come lingue dialettali, lingue glaciali che portano il deposito degli anni, e non lingue astratte a priori e che pretendono di rendere conto della realtà a partire da questo grado di riduzione[252].

           

L'altro come figura del sé

 

L'argomentazione di Ricoeur sull'alterità è meravigliosamente illuminata da una lettera di Hölderlin che Ricœur cita in occasione della sua lezione di apertura alla Facoltà di Teologia Protestante di Parigi: "Ciò che è giusto deve essere appreso così come ciò che è straniero". [253] Per Hölderlin, infatti, la mente accede a se stessa solo passando attraverso gli altri in un doppio rapporto di polarità e uguaglianza tra il proprio e l'estraneo, di riconoscimento dello straniero che ciascuno porta dentro di sé perché non siamo mai identici a noi stessi.[254] Ci vieta di adottare noi stessi come norma e di non riconoscerci come altri[255]. Ridefinendo i contorni dell'estraneità, Hölderlin inverte la polarizzazione dell'uno e dell'altro e permette di superarla. Attraverso la diglossia, la lingua minoritaria si apre all'altra a costo del suo annientamento, mentre la lingua egemonica erige il suo monolinguismo, peculiarità antropologica se mai ce n'è stata una, a principio di apertura e universalità. Ora, è proprio l'essere aperti al prossimo, all'altro, rivendicare per la propria lingua il privilegio di una conversazione a senso unico? Quella che Geffré chiama "l'articolazione tra l'universalità del messaggio cristiano e la pluralità delle tradizioni religiose e culturali"[256] si fonda profondamente su una reciprocità che condanna severamente chi non riconosce l'altro, la sua alterità e, quindi, il suo linguaggio. Al contrario, è opportuno che i cristiani riconoscano il loro bisogno del prossimo. Geffré lo riassume così: "Contrariamente a tutto l'imperialismo nell'ordine della verità e dell'esperienza religiosa, è una questione per ogni comunità cristiana e per il cristianesimo nel suo insieme essere il segno di ciò che le manca".[257]

 

 

B. La funzione profetica

 

Come il dialogo con le altre religioni risponde al comandamento di amare il prossimo, così lo spazio che diamo alle lingue e alle culture deve riflettere questo stesso comandamento. Non è possibile nascondersi dietro un cosiddetto universalismo, un presunto ricorso a un linguaggio comune. Claude Geffré parla di una funzione profetica: "C'è una funzione profetica dello straniero per una migliore comprensione della propria identità".[258] Questa dimensione profetica deve, naturalmente, garantire il provincialismo, lo spirito di decoro o qualsiasi altro aspetto del campanilismo. Il carattere profondamente dialettico delle lingue, carattere mantenuto più che altrove dalle lingue minoritarie, impedisce l'omologazione e costringe la vita di tutti i giorni a sentire parlare la propria lingua in modo diverso o a riscoprire la propria storia attraverso rappresentazioni diverse ma comunque evocative.

In particolare, significa rifiutare lo spirito di appartenenza e, al contrario, accogliere nuovi oratori[259]. Le esigenze di uguaglianza e reciprocità propugnate dal dialogo religioso sono imposte alle lingue minoritarie fino a questo stadio della loro evoluzione: "Diventare un parlante legittimo di una lingua in via di estinzione nel contesto di progetti di rivitalizzazione è una questione fondamentale, poiché il successo di questi progetti dipende spesso dalla loro capacità di generare nuovi parlanti di queste lingue".[260] Il doppio movimento della Pentecoste, centripeta e centrifuga, ha ripercussioni non solo ad extra "impegnandosi sia a radicare che a superare il radicamento, al locale e alla trascendenza del locale".[261], ma ad intra rispettando la variazione linguistica fino all'iperlocalismo o allo[262] shock di una pratica rivitalizzata dai neoparlanti segnati da altre lingue o dalla lingua egemonica. 

 

C. Lasciarsi distrarre

 

Che ci sia un'universalità diversa dall'universalismo mobilitato contro le lingue minoritarie, il parlante di una di queste lingue lo sperimenta quando incontra altri parlanti di altre lingue minoritarie. È anche l'esperienza di ogni individuo appartenente a un gruppo sociale che è vittima dell'oppressione quando riconosce tutti o parte dei problemi che affronta in quelli di un particolare individuo oppresso. Quale posto dare alla nozione di prossimo, o anche a una teologia del prossimo di fronte all'universale dominante[263] ?

 

         ha. Il modello althusseriano[264]

 

            Gli epiteti "minoritizzato" ed "egemonico" affinano un modello di pensiero che attinge allo sfondo materialista. Questo fondo materialista si serve di Paolo, o del fatto del "cristianesimo", per spiegare sia il suo pensiero dell'universale che la sua definizione di ideologia. Qui si ricorre all'analisi di Julia Christ, che mira a staccare l'universalismo dall'universalità, "guidata dall'intuizione che l'universale che combattiamo e difendiamo non è uno".[265]

                       

         ha. Richiamo a un approccio materialista

 

Nel capitolo precedente abbiamo incontrato l'idea di un universale che sarebbe l'unico riflesso delle forze in gioco. La questione del dominio qui sta nel fatto che "le rappresentazioni particolari [si impongono] come rappresentazioni collettivamente condivise".[266] Il modello althusseriano si distacca da questa analisi per puntare il dito contro l'ideologia stessa, che, in quanto "realtà non storica",[267] spiega da sola "il rapporto coercitivo delle istituzioni nei confronti degli attori, e non il fatto che sia l'ideologia dei dominanti".[268] Il cristianesimo appare qui come un modello di questa ideologia che ha "la funzione (che la definisce) di costituire gli individui in soggetti".[269] Questo è il meccanismo che Althusser chiama interpellanza: "quello di assegnare gli individui a un luogo e farli identificare con quel luogo".[270] Questo modello condurrebbe a un'imitatio Christi-imitatio Dei, intesa come accettazione del proprio posto nel mondo, cioè "amore per l'esistente".[271] Julia Christ indica ancora un altro approccio, mutuato dall'economia politica, "un modello in cui l'identificazione di tutti gli individui con una qualità comunemente riservata a Dio, cioè la sua onnipotenza, produce un ordine sociale in cui l'universale concreto, frutto di sintesi spontanee, si impone sotto forma di contenuto dominante".[272] Questi modelli dell'universale si avvalgono di un cristianesimo tematizzato, riflesso di una visione materialistica del mondo, e, di fatto, in totale contraddizione con il messaggio cristiano, che rifiuta appunto di identificarsi con i luoghi, si incarna in un uomo che accetta di essere deviato dal suo cammino (Mt 15,21-28), e non dimentica affatto l'autolimitazione dell'onnipotenza divina. Vogliamo studiare la nozione di prossimo in questo contesto, ma vale la pena ricordare le aspettative dei modelli materialisti a causa dei loro presupposti.

 

            b. L'operatore Tutto

 

Jean-Claude Milner mostra molto bene le implicazioni della tematizzazione del cristianesimo come figura dell'universalismo nella dimostrazione materialista. Lo fa attraverso quello che chiama l'operatore tutto[273]. Milner, uno dei principali sostenitori della teoria del nome ebraico,[274] ritorna implicitamente alla tematizzazione del cristianesimo come figura dell'universalismo, [275] pur mantenendo la tematizzazione del nome ebraico come ostacolo all'omogeneizzazione. Il filosofo e linguista mostra, a partire da Tacito[276], che "con i loro riti e i loro costumi, gli ebrei impediscono [cioè, sono percepiti dallo storico romano come impediti] la possibilità di trattare con tutti gli uomini in modo coerente. Rendono impossibile l'impiego dell'operatore. "[277]. Le implicazioni sono terribili. Ciò che minaccia l'omogeneizzazione di una cultura presentata come omogenea in linea di principio non può che esistere come contro-esempio: "Quando la verità è definita quod semper, quod ubique, quod ab omnibus, 'sempre, ovunque, da tutti', come è possibile un ebreo nel campo della verità? La risposta è chiara: non lo è, se non come supporto alla menzogna e a tutte le inadeguatezze tra le cose e l'intelletto. [278] La dimostrazione descrive i meccanismi di un processo di inautenticità, il sospetto nei confronti delle lingue minoritarie accusate, per natura, di non essere in grado di contribuire al lavoro comune, al bene comune, al noi. Queste lingue trovano il loro posto solo come complemento, rappresentando ciò che deve essere evitato.

 

B. Il cristianesimo come anti-modello

 

Contro l'approccio materialista, Jean-Claude Milner rovescia i termini in un modo che ci rimanda all'autolimitazione del potere di Dio: "Una teoria è vera solo se non è onnipotente".[279]

 

         ha. Il rifiuto di ciò che già esiste

 

Il meccanismo di interpellanza descritto da Althusser si concilia con una concezione del cristianesimo come cristianesimo, come modello sociale, e con un'adesione a valori sociali conservatori che trovano nel cristianesimo qualcosa da rafforzare. Sembra più difficile conciliarsi con una teologia cristiana che descrive un Dio che prende l'iniziativa, un Dio che sradica, mette in moto, insomma si presenta come un perturbatore delle leggi naturali così come delle leggi religiose o delle convenzioni sociali.

 

            b. La possibilità di essere deviati

 

            Abbiamo accennato all'incontro tra Gesù e la donna cananea (Mt 15,21-28). L'esegesi ci vieta di leggere in essa l'interpretazione più seducente, quella in cui Gesù accetta di rivedere i suoi piani. Ciononostante, è davvero una questione di tutto per l'operatore. Come sottolinea Pierre Bonnard, «[Gesù] deve essere impegnato... nella storia secolare di una determinata nazione [...]; La sua particolarità è la garanzia del suo universalismo. »[280] È perché la missione di Gesù è inscritta nella storia del popolo eletto che essa trova un significato universale. In entrambi i casi, la pericope rimane quella di un momento riflessivo. Il versetto 27 è davvero un punto di svolta[281] poiché Matteo, per bocca della donna cananea, esprime l'adesione a una salvezza in primo luogo per Israele, ma prevede anche una ripercussione di questo primo dono a beneficio dei pagani. Che Gesù cambi o meno i suoi piani, l'incontro con l'altro sembra comunque un'occasione per ritornare a se stessi.

 

            c. L'autolimitazione del potere di Dio

 

            Infine, il modello descritto da Althusser si fonda sull'identificazione con un Dio onnipotente che può invocare una lunga tradizione teologica a favore dell'onnipotenza di Dio, ma che tuttavia omette il suo corollario fondamentale, l'autolimitazione di Dio che fa spazio alla creazione. L'identificazione resa possibile dall'interpellanza rimanda a una comprensione fusionale del rapporto con Dio che ignora la teologia o, più in generale, la religione come mediazione, come spazio mantenuto tra Dio e la sua creatura per permettere l'incontro. La religione non chiede né dovrebbe esigere l'imitazione di Dio o dei suoi mediatori, ma il riconoscimento di questa stessa impossibilità. È da questi esempi che l'uomo conosce la sua miseria e si appella a Dio. Tutt'al più, l'imitatio Dei trova il suo posto nell'autolimitazione che deve portare anche l'uomo ad avvicinarsi, a farsi prossimo, cioè a non occupare tutto lo spazio. Questa distanza, che garantisce contro la fusione e permette l'incontro, consiste nel non comprendere facilmente l'altro. La non omogeneizzazione dei linguaggi permette così all'altro di rimanere un enigma, di sfuggire a una comprensione pratica che è anche appropriazione. Se l'altro non è il Ganz Andere, non è riducibile allo stesso. L'empatia non può arrivare al punto di dimenticare se stessi e la propria lingua. Mantenere pulito ciò che è pulito è anche una lotta per non espropriare l'altro[282]. Kenosis vorrebbe tornare alla comprensione esplicita della parabola del Buon Samaritano e deoggettivare l'altro che ci siamo abituati a chiamare prossimo, a rischio dell'appropriazione. L'altro non è né un altro sé né un'opportunità per affermarsi davanti a Dio, insomma, non è né il mio prossimo né il mio prossimo[283] né il mio vicino.

 

C. "Fratello come grazia"[284]

           

Infine, l'imitatio Dei nei confronti dell'altro a cui ci si fa prossimi potrebbe consistere nel dire, come ci invita a fare Dietrich Bonhoeffer: "Tu sei un peccatore, un grande peccatore, incurabile, ma puoi andare, così come sei, al tuo Dio che ti ama. Ti vuole così come sei, non vuole assolutamente nulla da te, né sacrifici né lavoro, ma vuole te stesso, tu solo. [285] Questo, secondo Bonhoeffer, è ciò che la grazia del Vangelo annuncia, e che noi possiamo annunciare per l'altro come per noi stessi. Per l'altro a cui siamo invitati ad avvicinarci, questo annuncio di grazia è valido perché l'accoglienza dell'altro non è condizionata da alcuna conoscenza della sua persona, delle sue qualità, se non che è amato da Dio così com'è. Per se stessi, l'annuncio della grazia è valido attraverso la consapevolezza che siamo tutti peccatori e che come tali possiamo costituire una comunità di peccatori. L'unità e la comunione non sono ordinate alla santità o alla perfezione. Per le lingue l'implicazione è che la conoscenza essenziale, e la comunione che ne deriva, è l'universalità del peccato. Ogni tentativo di subordinare la comunità a una lingua comune o a un referente universale è quindi denunciato come una restaurazione pre-babeliana. La fraternità è primaria. Non è quella di alcuna omogeneità se non l'universalità del peccato e l'appartenenza ad un unico padrone (Mt 23,8). Anche in questo caso, l'incontro faccia a faccia tra l'altro e lo stesso è rifiutato dal fatto che Cristo non solo si è manifestato nell'altro (Mt 25,40), ma fondamentalmente perché, dopo l'incarnazione, l'altro ha preso il posto di Cristo. Bonhoeffer la metteva in questi termini: "Il fratello ora prende il posto di Cristo".[286] Bonhoeffer lo giustifica nel senso stretto di una comunità a cui si ha accesso attraverso la confessione, ma ci si riserva il diritto di intendere il suo scopo in un senso più ampio, e propriamente universale, proprio a causa dell'universalità del peccato.

Riconoscersi peccatori, e riconoscere nell'altro qualcuno soggetto alla stessa condizione, i due movimenti posti come condizione necessaria (confessione), è rifiutare di avere un'idea conveniente dell'altro, proiettare qualcosa di diverso da questa proiezione fondamentale. Significa dover rinunciare alle affinità elettive che vorrebbero costituire le comunità sulla pietà, per esempio, come evoca Bonhoeffer. Significa, infine, rinunciare al giudizio dell'altro e di se stessi, perché la confessione è un'ammissione di vulnerabilità. Tuttavia, pensiamo alle lingue minoritarie come lingue vulnerabili.

 

         Linguaggi della vulnerabilità vs. utilitarismo

 

Ammettere l'impossibilità di riconoscere nell'altro un'identità basata su una continuità assoluta, una conformità a una cosiddetta identità, significa ammettere che "l'unica cosa probabilmente praticabile è la sconfitta di una serie indefinita di tentativi di identificazione".[287] Da questo punto di vista, la dimensione dialettale delle lingue al di fuori di un processo di uniformità/omogeneizzazione è un meccanismo salutare e intimo di accoglienza e di incoraggiamento dell'alterità. Se accettiamo che la conoscenza di Dio è primaria, la conoscenza di sé secondaria – meglio elusiva in quanto consiste nel sapersi miserabili/peccatori – la dimensione della conformazione ha senso solo in relazione alla volontà divina, non nel mantenimento illusorio della stessa. Non si tratta di conformarsi a se stessi, ma a ciò che Dio vuole per la sua creatura (1 Ts 4,3a). Dio ci libera dalla tirannia della stessa, ed è a questo riguardo che possiamo dire di Lui che fa nuove «tutte le cose» (Ap 21,5). Un corollario dell'apprensione apofatica del sé[288] nell'equazione "se stessi come un altro" è l'apofasia dell'altro, e quindi l'apprensione apofatica desiderabile dell'altro.

L'altro si incontra solo come irriducibile. Sia che si avvicini, come in Levinas[289], sia che ci facciamo vicini, l'altro si fa conoscere come irriducibile alla nostra esperienza. Almeno, è così che dovrebbe farsi conoscere. Ora, ciò che avviene più in generale nell'incontro è il passaggio dell'altro attraverso il setaccio della propria esperienza, della propria comprensione del mondo. Piuttosto che irriducibile, l'altro è investito della nostra comoda comprensione dell'altro. Così l'altro è sempre mancato.

La questione della mediatezza rimbalza se consideriamo che è solo nell'altro che possiamo lasciarci avvicinare dall'Altro, o anche avvicinarci all'Altro. Qui è necessario rinunciare a risalire dal detto al detto[290], ma accogliere l'altro come teofania, per accogliere meglio l'altro come grazia, per sé e non come mediatore o viatico. C'è, tuttavia, una tensione tra questa possibilità di incontrare il Ganz Andere nell'altro e la possibilità che il Ganz Andere sia interamente nell'altro. Sul piano filosofico, Ricœur aveva individuato la tensione in Levinas: «Come far coincidere la supplica [...] a favore dell'irriducibilità del Dire al Detto con il discorso [...] sulla prossimità? [291] Possiamo immaginare che questa irriducibilità del Dire al Detto, per noi dall'Altro all'Altro, sia concepita come un legame di continuità tra l'onore di Dio e la dignità dell'Altro? Questa irriducibilità dell'altro, questo incontro che non è mai altro che un'approssimazione, questa vicinanza sempre transitoria che l'incontro offre, è spesso essa stessa vissuta come "disturbo".[292] Molto, nell'incontro con l'altro, richiama il Tutto-Altro-Altro. Anche lui è investito della nostra comoda comprensione di Dio, anche lui è sempre carente, almeno intellettualmente,[293] e anche inquietante. Tranne questo: è Dio che si avvicina e Dio che si fa conoscere, certamente secondo la logica del velo/svelamento, ma si fa conoscere nello svelamento in un modo che non ammette ambiguità.

Se Dio si fa prossimo, soprattutto nell'altro, e noi siamo invitati a diventare vicini dell'altro, si arriva a quella che Ricœur definisce "ossessione per il prossimo"?[294] Dio non vuole essere adorato come un idolo, ripetiamo. Ricœur ci ricorda che "il testo di Levinas è sotto questo aspetto violentemente antiteologico".[295] L'irriducibilità dell'altro deve preservarlo dall'essere anch'esso oggetto di ossessione, feticizzato, ridotto a una funzione, quella di confondere, disturbare o rappresentare Dio. La posizione di responsabilità verso l'altro, a cui il Vangelo ci invita, non è un'abolizione della libertà dell'altro.

Quali sono le implicazioni di una teologia dello straniero, dell'altro, o di una plesiologia, per i vinti e i vulnerabili, i parlanti di lingue minoritarie? Crediamo che il contributo di Levinas qui sia quello di consentire l'empowerment, un risveglio della dignità. Le lingue minoritarie intendono dire qualcosa sulla loro responsabilità nel mondo. Esse sono vissute come testimonianza e illustrano volentieri l'invito di Levinas: "Nel trauma della persecuzione, passare dall'oltraggio subito alla responsabilità per il persecutore".[296] Naturalmente, qui deradicalizziamo il pensiero di Levinas per conservare solo la parte accomodante. Nonostante la sua compatibilità con una lettura del messaggio cristiano (porgere l'altra guancia; Mt 5,39), e dall'ammirazione suscitata da questa ossessione per il prossimo, non possiamo seguire l'invito di Levinas a una passività così perfetta. L'assoluta pazienza richiesta da Levinas ci sembra possibile solo nei frutti conclusivi che produce: questa situazione di passività assoluta in cui il "perseguitato è suscettibile di rispondere per il persecutore".[297] Ma se questa conclusione evoca una risoluzione auspicabile, la nozione di passività, peraltro qualificata come assoluta, sembra precisamente in contrasto con il ragionamento stesso. Sopportare, e tanto meno sopportare nel modo descritto da Levinas, non ci sembra passività.

 

Come negli esempi di Levinas, c'è una parte della tragedia che si sta svolgendo intorno alle lingue minoritarie che non può essere riscattata: l'uguaglianza non può essere ripristinata[298]. L'oltraggio sofferto dai parlanti di queste lingue non può essere riparato, e la questione non è in termini di perdono, ma di giustizia e di ripristino della dignità di queste lingue. La dimensione teologica è qui mantenuta nella sua apparente anti-teologia, per noi teologia fondamentale: non c'è accesso a Dio senza giustizia verso gli ultimi (Mt 25,31-46). Questa radicale cancellazione di Dio dietro la figura dell'altro non è che una conferma della volontà di Dio di manifestarsi come universale concreto. A nostro avviso, questa manifestazione non inverte Gv 14,9b («Chi ha visto me ha visto il Padre»), ma esprime in modo potente l'imperativa necessità dell'autolimitazione di Dio, si oserei dire dal suo punto di vista. L'etica della responsabilità si esprime in un assoluto che pone la compassione, cioè la giustizia, non come unico presupposto, ma come principio e fine della conoscenza di Dio.

V. Creazione e speranza

 

 

« Sir, destacatz ma lenga »[299]

Mistral, Miserere [1845]

 

 

Finora abbiamo scelto di ignorare l'avvertimento di 1 Cor 13,8, che è stato scelto per il titolo di questo studio: "Le lingue finiranno".[300] Può la giustificazione scritturale per il beneficio delle "lingue" avanzata da questa ricerca reggere a una disastrosa predizione che viene così spesso verificata? Come ha sempre fatto la teologia, celebrando la diversità della creazione, abbiamo cercato di descrivere una diversità linguistica che è una benedizione, voluta da Dio, e un fuoco tenuto vivo dallo Spirito. Ma come conciliare la diversità e l'orizzonte escatologico? Ha senso l'uso delle lingue, anche la loro dispersione, in vista del grande raduno del popolo di Dio, in cui devono consistere i fini ultimi?  Alla fine le lingue saranno sostituite, predice Paolo, "da qualcosa di più perfetto, in cui la lingua non sarà più necessaria per comunicare".[301] Vorremmo rispondere, come abbiamo già fatto, che non c'è bisogno del linguaggio per comunicare o che il ruolo delle lingue non è primariamente quello di comunicare[302]. Potremmo aggiungere che Dio non ha scelto in modo particolare il linguaggio per comunicarsi, e che lo scopo della Parola sembra essere molto più quello di entrare in una relazione che non è quella della comunicazione. Ma porre la questione in termini di fine ultimo delle lingue è un promemoria di quanto l'intimo, di cui le lingue sono il cuore pulsante, il vulnerabile, il – forse – contingente, non possa rassegnarsi al suo annientamento anche quando riconosce la "priorità del futuro di Dio".[303] Questa difficoltà a risolversi a capitolare non è testardaggine, ma trova le sue radici nella Parola accanto alla fede e all'amore, è speranza. L'esperienza delle ricchezze dello Spirito nella diversità linguistica è un effetto indiretto dell'esistenza, o appartiene qui e ora a un grado di perfezione che è di buon auspicio per il mondo a venire?

 

A. Escatologia, universalismo ed ecumenismo

 

         ha. Universalismo escatologico

 

Prima di tutto, è necessario sgombrare il terreno da un'escatologia segnata dal sigillo dell'universalismo. Non è, infatti, la stessa cosa considerare ἔσχατον come la "priorità del futuro di Dio"[304] e vedere in essa una ricapitolazione finale in cui si estinguerebbe la diversità della creazione. La prima formulazione mantiene l'escatologia nella teologia della creazione, quella di un Dio che inizia e anima la sua creazione, mentre la seconda vede nella diversità della creazione il segno della finitezza o della contingenza, percepita come imperfezione. I due approcci non sono in contraddizione. La finitezza è indiscutibile se consideriamo il mondo. Lo stesso vale per la sua contingenza nei confronti di Dio. Forse lo stesso vale per la creazione, che però non è il mondo. Il marchio dell'universalismo – non l'universale, quindi, ma l'ideologia dell'universale – può essere identificato in diverse nozioni legate al discorso escatologico, e problematico a causa del loro impatto nel presente sul futuro della diversità, compresa la diversità linguistica.

 

         1) Convergenza

Il primo elemento problematico è la nozione di convergenza. L'immagine secondo cui ci stiamo muovendo verso la stessa fine, verso la stessa ἔσχατον, evoca già l'idea che dovremmo incontrarci di nuovo alla fine del viaggio, la metafora di una "convergenza universale"[305] che in Teilhard de Chardin, ad esempio, si esprime attraverso l'immagine della vetta. Non importa da che parte vai, l'importante è trovare te stesso in Dio. La τέλος del sentiero giustificherebbe retrospettivamente il sentiero. Da un punto di vista puramente teologico, tuttavia, postulare ἔσχατον in questi termini è problematico. Innanzitutto, nella teologia cristiana, è Dio che viene incontro all'uomo. In secondo luogo, perché la nozione di convergenza tende ad essere pensata come omogeneizzazione. Attraverso il discorso escatologico, la diversità linguistica sperimenterebbe il rimprovero che le spetta l'opinione comune, quella di essere una deviazione, una muserie invece di essere sulla via che conduce dritta a Dio. Contro questo, ripetiamolo semplicemente: è Dio che viene incontro all'umano. E arriva attraverso la contingenza. Meglio ancora, è venuto, attraverso l'evento di Gesù, attraverso questa contingenza. Questa venuta, iscritta nella storia, fa dell'escatologia non solo la speranza delle cose ultime, ma la loro contemplazione in Gesù Cristo.

 L'originalità dell'escatologia cristiana è che essa proclama un compimento già avvenuto. Questa affermazione è al centro della fede cristiana, di cui la venuta, la morte e la risurrezione di Gesù sono il compimento materializzato. L'amore di Dio che si è manifestato è un'esperienza concreta che i credenti possono sperimentare. Questo compimento è dunque allo stesso tempo la fine della fine, la realizzazione perfetta, il completamento, ma anche la pienezza, la riconciliazione. Questo punto di vista si avvale di molte testimonianze scritturali, tra cui un caratteristico modello di pensiero attestato in Mt 6:5, l'affermazione di Gesù che gli ipocriti "hanno già la loro ricompensa".[306]o il Τετέλεσται («È compiuto», Gv 19,30). L'affermazione escatologica cristiana è ancorata a un tempo, a una storia in cui il compimento è già avvenuto, nello stesso tempo in cui questo compimento ha prefigurato un compimento a venire.

In effetti, questa affermazione di una pienezza di pienezza si adatta bene al paragone di Panikkar tra un buddismo di "śūnyatā (vacuità, nullità, vacuità)"[307] e un cristianesimo di "πλήρωμα (pienezza, pienezza)".[308] Si potrebbe sostenere da Panikkar che il vuoto non è assente dalla narrazione cristiana: l'incarnazione avviene in connessione con la kenosi e l'abbassamento di Gesù Cristo (Fil 2,5-11); il sepolcro è vuoto; elaborazione teologica La donna cristiana doveva affrontare la meditazione del compimento nonostante l'assenza; E la pietà cristiana si è spesso avvicinata all'idea kierkegardiana che "la croce è vuota perché ti aspetta".[309] Il confronto tra le nozioni di vuoto e di pieno ha il vantaggio di conservare l'assoluto ed efficace compimento del compimento già raggiunto, a differenza di una lettura razionalizzante che vede nella prima gli arretramenti della seconda (ἀρραβών, Ef 1,13-14).

 

            2) Perfezione

 

La seconda nozione problematica legata al discorso escatologico è quella della perfezione. Come suggerisce Dieter Zeller, Paolo sta presumibilmente indicando un mezzo di comunicazione più perfetto del linguaggio. Una delle dimensioni di ἔσχατον deve necessariamente essere la perfezione. In senso letterale, intendiamo questa nozione come l'organizzazione della storia cosmica secondo un τέλος, un termine o un fine. In questo senso, è una realizzazione o una perfezione. Ciò che appartiene a un τέλος può essere chiamato τέλειος, α, ον o perfetto. Inoltre, il credente è chiamato a quest'ultimo fine, concepito come compimento, di cui il primo Vangelo sembra dire che egli è anche Dio[310]. Ancora una volta, però, non dobbiamo riconoscere che questo adempimento è già avvenuto, e che possiamo rallegrarci di aver conosciuto questo τέλος e colui che è τέλειος? A rigor di termini, la perfezione a cui siamo chiamati è ancorata più a un presente, quello dell'evento di Gesù Cristo, che a un futuro[311]. La perfezione a cui siamo chiamati si applica a questo mondo e prende la forma della santificazione (ἁγιασμός). Consiste nel conformarsi al Santo (1 Ts 1,4; 4,7-8), senza in alcun modo guadagnarlo, come si rifugia alla fine del cammino. L'escatologia, tuttavia, comprende qualcos'altro nelle parole di Paolo: le lingue finiranno, ma l'amore non soccomberà né scomparirà mai. Il discorso escatologico rimanda ad un altrove, dopo l'ἔσχατον dove l'amore è ciò che dura eternamente. C'è, tuttavia, una tensione tra la nozione di perfezione e quella di amore, se vogliamo mantenere il suo aspetto di completamento, che è più in sintonia con un nulla, o almeno con uno stato perfettamente statico, che con le rappresentazioni più volutamente dinamiche dell'amore. Torneremo su questo.

           

            3) Il Nova Creatio e l'uomo nuovo

           

L'idea di una nova creatio ha origine nel Deutero-Isaia, e in particolare in Pericope 65:17-66:2, che inizia: "Ecco, io creerò nuovi cieli e nuova terra; Così il passato non sarà più richiamato, non tornerà più al segreto del cuore. (TOB). È una terra nuova o una terra rinnovata? È una terra in cui è stata resa giustizia alle ingiustizie del passato a tal punto che la memoria è alleviata, il cuore è liberato, o è una tabula rasa come nel diluvio? È in gioco la possibilità per le lingue e per le culture di sopravvivere. Dopo tutto, la stessa teologia della creazione del Deutero-Isaia sottolinea questo: "Può un paese nascere in un solo giorno? Può una nazione essere messa al mondo in un colpo solo? (NBS 66.8cd). Ci sono almeno tre argomenti scritturali contro la lettura di una creatio nova intesa come creatio nova ex nihilo. 1° Gen 1,1-2.4a stesso non prevede una creatio ex nihilo. Dio crea la creazione delimitando uno spazio vitale libero dal caos. A differenza dei resoconti del Chaoskampf del Vicino e Medio Oriente antico, Dio sembra avere tutto il potere sul caos. Il caos non sembra essere sconfitto o abolito[312], ma il caos non è il nulla. Il diluvio in sé non è la storia dell'annientamento totale, Noè, la sua famiglia, tutti gli animali e la terra sono preservati. L'episodio del diluvio si conclude con la promessa divina che "non ci sarà più diluvio per annientare la terra". (Genesi 9:11c; NBS). Questa promessa, che si applica a Noè, ai suoi discendenti e a tutti gli esseri viventi (Gen 9,10), è al centro dell'alleanza di Dio con la terra (Gen 9,13). Si sarebbe quindi più tentati di considerare questa nova creatio come appartenente a una creatio continua, quella che abbiamo considerato nel primo capitolo di questa dissertazione. L'escatologia, che sarebbe il discorso di un equivalente onnifine alla distruzione dell'antica creazione, non può essere esclusa a causa della libertà d'azione di Dio, ma contrappone a 1° un orientamento escatologico che è futuro solo in quanto già avvenuto; 2° La testimonianza cristiana, interamente escatologica nella sua interezza, che prevede non tanto l'annientamento del creato, quanto la modificazione del presente in direzione della riparazione dell'ingiustizia. A rigor di termini, questo è il suo auspicio, "prospettive e orientamento in avanti"[313] per il presente.  L'escatologia contemporanea non può convalidare senza ulteriori indugi il trasferimento di una "speranza messianica per il futuro della terra"[314] nell'aldilà senza modificare sostanzialmente la testimonianza biblica. Equivarrebbe a dubitare del compimento che si è compiuto in Gesù Cristo, della pienezza di questa realtà, rimandare ad un mondo al di là della materialità di ciò che è stato vinto dalla croce.

            Di fronte a un certo gnosticismo che consisterebbe nel dire che "Cristo è venuto per salvare gli uomini, non per perpetuare il mondo"[315], forse l'esegesi ci invita a vedere che quando Dio distrugge il passato, si preoccupa di preservare la diversità. È il caso della diversità degli esseri viventi nell'episodio del Diluvio. È il caso di Babele: Dio interviene per stabilire la diversità linguistica. Perciò seguiamo ancora la logica di Christopher Rowland in termini di implicazioni in termini di speranza, e in particolare la questione teologica della ricerca di un migliore qui sulla terra in contrapposizione a una speranza rimandata a una vita dopo la morte[316].

Lo stesso vale per l'uomo nuovo, che va annoverato tra gli elementi di origine cristiana che Pierre Gisel chiama a decostruire[317]. Sembra chiaro che il καινὴ κτίσις[318] non è tanto quello di un uomo nuovo, espressione che avrebbe senso riferirsi a Gesù solo come al nuovo Adamo, ma nel senso di una creazione rinnovata, cioè riconciliata con il suo creatore («Dio infatti era in Cristo e ha riconciliato a sé il mondo»; 2 Cor 5,19a). Ancora una volta, l'idea della riconciliazione e della restaurazione non si sposa bene con l'idea della distruzione totale.

Contrariamente al sospetto che grava sulle lingue minoritarie, questa sarebbe l'occasione per dimostrare che non è il passato stesso ad essere condannato. Come la novità non è di per sé una qualità,[319] così l'abolizione del passato non è di per sé un'emancipazione. Come ha ricordato Jürgen Moltmann: "Quando oggi ci lamentiamo della perdita di un centro in una società in disgregazione, esprimiamo nostalgia per un'integrazione religiosa pre-moderna di uomini e donne nella società. [...] Hegel, uno dei primi, riconobbe la nascita di una società moderna ed emancipatrice, distruttiva di tutti i poteri del passato; Egli lo analizzò, secondo l'economia politica inglese, come un sistema di bisogni. [320] Parlare dei poteri del passato non è anche dire che il passato è potere? Con Crossan in testa, ciò che dovrebbe richiamarci qui è la parola potere. Non è il passato in sé che è destinato ad essere distrutto, ma i poteri. Il racconto della Genesi, distinguendosi dalle narrazioni del Caoskampf, come già notato, mostra quindi che Dio non è il creatore previsto da Nietzsche[321]. La grandezza e l'onnipotenza di Dio risiedono anche nel suo potere di non ricorrere alla distruzione. 

La diversità linguistica, voluta da Dio, animata dallo Spirito, non è dunque destinata ad alcun fine in virtù di uno gnosticismo che ha fretta di porre fine al mondo, in virtù di una convergenza/omologazione, di un perfezionismo, di un difetto particolaristico capace di forgiare l'identità. Sotto l'azione dello Spirito, le lingue si manifestano e si distinguono come l'intima esperienza nel cuore di ciascuno di noi della dimensione creativa non del linguaggio in sé, ma del suo uso[322].

 

B. Faccia a faccia: autolimitazione o autotrascendenza di Dio

 

         ha. Faccia a faccia

 

C'è un altro aspetto da considerare in relazione alla pericope paolina, ed è quello di una distorsione della nostra percezione evocata da Paolo: "Ora vediamo allo specchio e in modo confuso [ἐν α ἰνίγματι], ma allora sarà faccia a faccia". (1 Corinzi 13:12; TOB). La frase stessa è enigmatica. Dio può essere conosciuto in questo mondo, ma in modo indiretto, sembra dire il riferimento allo specchio. Verrà un momento in cui potremo vederlo πρόσωπον πρὸς πρόσωπον, o direttamente (1 Cor 13,12). Tuttavia, questa "direttamente" non è fusione. Presuppone che la persona stia davanti a Dio e non si fonda con Lui. L'immediatezza della comunicazione di Dio, riservata ai tempi escatologici, non è il fine della comunicazione.

La nozione di autolimitazione è stata paragonata a Whitehead, Hartshorne, e quindi a una teologia del processo. Anche l'idea di un Dio relazionale sembra presa in prestito da lui. Eppure entrambe le idee possono essere derivate in egual misura dalla teologia dialettica[323]. Inoltre, come abbiamo visto nel capitolo II, il κοινωνία è essenzialmente relazionale, e la kenosis di Gesù Cristo descritta da Paolo (Fil 2,5-11) è in linea con l'autolimitazione della prima persona della Trinità. Alla fine, il dogma cristiano concorda prontamente con la nozione di autolimitazione; e l'idea del faccia a faccia, certamente rimandata alla fine, è conforme alla realtà di un Dio personale.

L'onnipotenza non è onnivolenza: Dio non vuole tutto[324]. La beneficenza di Dio[325] si manifesta proprio in questo passaggio dal potere al volere: poter fare tutto non è volere tutto. Tutto è possibile a Dio (Mt 19,26; Luca 1:37; Gen 18,14), e Dio offre un mondo di possibilità contro la sua stessa volontà, a rischio della sua stessa volontà o del suo stesso divenire, ma se Dio vuole questa possibilità e questa libertà per l'uomo, non vuole volere alcuni elementi di questa possibile. Questa è la domanda dell'essenza di Dio: Egli potrebbe volere il male o semplicemente non può? Ci sono testimonianze scritturali di ciò che Dio non può ("la speranza della vita eterna, questa vita, Dio, che non mente, l'ha promessa"; Tt 1.2b NBS; "I tuoi occhi sono troppo puri per vedere ciò che è male, non puoi guardare l'oppressione"; Ha 1,13 NBS). Ma sappiamo anche che Dio ha vinto la morte. O voleva la morte per il bene dei vivi, e la sua vittoria su di essa è più che altro un capovolgimento. Così sia, e questo è ciò che noi cristiani crediamo, c'è la vittoria sulla morte e Dio può allora (qui più di quanto non voglia) qualcosa che allora non poteva fare. La morte sconfitta testimonierebbe dunque un divenire di Dio e un'autotrascendenza di Dio che non sono in contraddizione con la nozione di autolimitazione, ma che implicano che questa autolimitazione non è una facciata, che costringe Dio e che lo obbliga – che così obbliga se stesso – a superare la propria volontà. Anche allora, Dio sconfigge se stesso secondo una logica che è quella della benevolenza, del volere il bene, dell'amore.

Allora, qual è il posto della cultura, della benevolenza umana e potenzialmente dei linguaggi in cui lo Spirito è all'opera? L'idea della collaborazione umana all'opera di Dio è insita nella teologia del processo. Si potrebbe obiettare che, poiché Dio è all'iniziativa e all'opera, non c'è collaborazione, in senso stretto[326]. Dio prega se stesso, come direbbe Meister Eckart. L'uomo non avrebbe bisogno di Dio, né interesse. Ora conosciamo bene l'interesse di Dio per la sua creatura. E si potrà facilmente postulare che questo interesse derivi dalla diversità e dalla contingenza offerta da una creazione voluta da Dio, ma anche voluta in un modo che offre contingenza, libertà, sorpresa. Le lingue, il linguaggio, offrono proprio questo ad ogni essere umano. La conoscenza parziale di cui parla Paolo deve essere intesa negativamente: abbiamo una conoscenza imperfetta. Tuttavia, non è proibito sentirlo in modo più positivo: forse questo parziale non è destinato a scomparire. L'azione di Dio in questo mondo, senza trattenerLo o obbligarlo, non può sembrare parziale senza contravvenire agli attributi divini. Se Dio non si comunica interamente all'uomo in questo mondo, ciò contravviene all'idea di Dio che egli non è interamente in ciò che ci tocca di Dio. Ciò che ci tocca non può essere una parte di Dio, a meno che non immaginiamo che Dio sia divisibile. Dio non si comunica interamente, ma è interamente presente in ciò che rivela di sé. Qui dobbiamo affidarci ai paradossi delle teologie dialettiche[327].

     

         b. L'autolimitazione di Dio

 

È possibile conciliare l'esigenza imperativa di rifiutare di imporre le mani su Dio – di pensare in un modo che sfiocchi l'idolatria che essa si manifesta nella diversità linguistica, nel rifiuto delle lingue e delle culture minoritarie di scomparire – e l'esperienza di cui la Scrittura si fa araldo: «Sapranno che io sono il SIGNORE loro Dio,  Io che li ho fatti uscire dall'Egitto per abitare in mezzo a loro. (Eso 29:46). Prima di parlare dell'autolimitazione, Jürgen Moltman, sulla scia di Walther Zimmerli, considera anzitutto la rivelazione come l'autosvelamento di Dio[328]: Dio può essere riconosciuto perché si è dato per conoscere e si è dato per conoscere come riconoscibile[329]. Questo segno di riconoscimento, che Dio è particolarmente sensibile alla vulnerabilità, agli oppressi, la sua auto-manifestazione nello svuotamento di sé, lo svilimento della croce, che ci insegna in questo mondo, non direbbe nulla dell'ἔσχατον? È assurdo che il modo in cui Dio si fa conoscere in questo mondo non solo ci dica qualcosa sulla volontà di Dio per questo mondo, ma anche per qualcosa al di là del mondo? L'adempimento manifestato in questo mondo, allora, deve richiedere un secondo/ultimo adempimento? L'autolimitazione di Dio si applica a questo mondo nell'attesa di un compimento che sia perfezione, cioè fusione e fine, senza divenire, senza la temporalità di Dio, senza la possibilità di un incontro faccia a faccia?

 

        

         c. L'autotrascendenza di Dio e il divenire di Dio

 

L'affermazione apparentemente contraddittoria della speranza cristiana tra due adempimenti ha trovato una giustificazione nell'affermazione del divenire di Dio[330]: «Mentre oggi l'amore – e quindi Dio stesso – è sempre creatore di situazioni nuove. Egli è capace di superare se stesso per raggiungere una nuova realizzazione, una nuova creazione dal nulla (creatio ex nihilo). [331] Questa concezione, che protegge la libertà divina, si adatterebbe all'idea di una realizzazione concepita come incompiutezza. L'incompletezza è ciò che non cessa mai di finire. La nozione di appagamento non dovrebbe essere mantenuta lo stesso aspetto indefinito di ciò che non cessa mai di essere realizzato? Da una parte, dobbiamo ricordare la totale libertà di Dio di fare e disfare, di dare o di togliere. Questa libertà di Dio ci ricorda, così facendo, che il compimento o ἔσχατον ha senso solo da un punto di vista umano. D'altra parte, la concezione di un Dio personale può ammettere che Dio partecipi a questa fine dei tempi per l'uomo venendo incontro alla sua creatura, accogliendola, ma egli stesso non può essere vincolato, vincolato da questo fine universale. Non ci può essere compimento o ἔσχατον per Dio al di là della sua partecipazione organizzatrice, della sua iniziativa, alla riconciliazione. La libertà di Dio ci viene fatta conoscere anche secondo un principio organizzatore, l'amore, e più precisamente secondo il principio che l'amore abbonda sempre (1 Tm 1,14). Il risultato raggiunto in questo mondo non sarebbe più un'affermazione volontaristica, ma un'onesta constatazione. Non si tratterebbe solo di qualcosa che c'è già e non ancora, ma qui e ora di qualcosa che è già stato realizzato e si sta ancora compiendo. Si realizza costantemente, non per fallimento, ma per progetto. Il secondo o l'ultimo risultato dovrebbe essere di natura o scopo molto diverso? Non può essere proprio lì e ancora in divenire? In breve, possiamo immaginare o sperare che Dio rimanga un Dio personale dopo ἔσχατον? È quanto suggerisce la Scrittura, la quale, mentre la proclama al di là di ogni rappresentazione, ci porta a desiderare un giorno di contemplarne il volto. È così che Dio si dona per farsi conoscere e sembra voler essere conosciuto. 

 

C. Lo spostamento della speranza[332]

 

Se ἔσχατον ha senso solo da un punto di vista umano, se la vita umana è stretta tra due realizzazioni che sembrano non ostacolare il divenire di Dio e il suo rapporto con l'umano, qual è il significato della diversità e della varietà in una prospettiva escatologica?  Che senso dare alla sopravvivenza della diversità di fronte a un'escatologia di ricapitolazione, a un ritorno all'Uno?  L'ἔσχατον potrebbe essere l'avvento di un mondo di esclusivo faccia a faccia con Dio, l'irruzione di una dimensione in cui le creature non sarebbero più in grado di ingannarsi a vicenda[333]? Potrebbe essere questo il momento di una reductio radicale in cui un idioma e nozioni inequivocabili non sarebbero più un'illusione ma una pienezza di comunicazione? Possiamo vedere come queste domande si basino sull'escatologia antropomorfica e su una difficoltà nel comprendere ἔσχατον sotto il segno dell'eternità. L'escatologia cristiana è posta sotto il segno della resurrezione, ma non è il paradiso dell'antico paganesimo. Se ἔσχατον ha senso solo da un punto di vista umano, allora è probabilmente appropriato affrontarlo dal punto di vista del suo impatto sul tempo presente. Il rifiuto dell'escatologia come futurologia invita fortemente a questo. È anche che l'escatologia ha senso in se stessa solo come annuncio del Vangelo nel tempo, perché il tempo è arrivato nel tempo, non come anticipazione di un mondo a venire, ma come conformità (αγιασμός) all'evento che è avvenuto. L'escatologia pone certamente l'azione umana in tensione tra queste due conquiste evocate, ma la chiamata all'azione, la μετάνοια sollecitata, può avvenire solo nel tempo e, oseremmo dire, a beneficio del tempo. Il Vangelo, il kerygma, ci invita a metterci in cammino, a condurre una vita di «sequela» (Lc 14,25-33). Le prove non sono negate ("Chi non porta la sua croce e non cammina dietro a me non può essere mio discepolo"; Lc 14,27). Si può parlare contro ogni dualismo e dolorismo, e tuttavia, nella prova, trovare conforto nel fatto che il dolore e la tribolazione sono riconosciuti e integrati, forse in un modo che è controintuitivo per il Vangelo. In contrasto con la possibile soddisfazione per le cose di questo mondo, discussa sopra, l'enfasi qui è sulla non soddisfazione per il mondo presente. Nel caso delle lingue minoritarie, sono due facce della stessa medaglia: offrono una soddisfazione fondamentale, la gioia di una certa immediatezza tra lingua e creazione, ma ci permettono di vedere, per contrasto, la costituzione di lingue svuotate, devitalizzate. In termini escatologici, la speranza è legata alla nozione di chiamata e di vocazione e, in ultima analisi, alla durezza che è la realtà: "Il nostro coinvolgimento negli 'affari mondani' implica inevitabilmente che perdiamo il controllo del nostro destino piuttosto che prenderne il controllo".[334] È nell'arena pubblica che la speranza ci conduce, ed è nell'arena che la speranza ci sostiene: "Sappiamo che la speranza ci cambierà, in un modo che non comprendiamo pienamente, e in effetti in un modo che non desideriamo comprendere pienamente in questo momento, per non parlare di sopportare".[335] La speranza si scontra quindi con la sensazione di terrore.  Mathewes offre una descrizione convincente della speranza cristiana in relazione all'impegno pubblico e politico. Negli altri modelli, egli è forse un po' pronto a rifiutare proprio ciò che fa parte della sua descrizione fenomenologica. Ciononostante, descrive anche questi modelli come immanenti e realistici, il che sembra essere anche il suo. Un certo quietismo, lo status quo o il liberazionismo non sono certo gnosticismi. Comunque sia, Mathewes separa la nozione di speranza dall'obbedienza a un piano o a un progetto. Il piano non può che essere divino, e la speranza ci fa immergere in esso come in un grande bagno di cui non abbiamo nemmeno una rappresentazione. Ci immerge in essa e ci trattiene lì, a patto che ricordiamo, grazie a Mathewes, che ciò che ci accade è proprio la speranza in azione.

Infine, possiamo pensare alla citazione attribuita al pastore Charles Wagner: "Quanto vale l'uomo? Vale di per sé ciò che offre. L'uomo è una speranza di Dio. [336] Ciò che fa sentire bene attraverso le sofferenze incontrate è senza dubbio la sensazione di essere stati messi lì, e di essere stati messi lì non per salvare la propria lingua o il prossimo, ma per testimoniare l'amore di Dio per la diversità e la diversità, per incontrare "il fratello come grazia"[337] anche sul proprio terreno.  e non sulla base di un'idea pratica e preconcetta, compresa la propria lingua, la propria cultura. Come grazia, il fratello o la sorella sono lì per cambiarci, non perché noi cambiamo loro.


 

Conclusione

 

 

 

 

"Se si ignora il nero, il freddo, il pesante, il denso, le qualità che hanno a che fare con il gusto [...] La sostanza non sarà nulla. »

 

Basilio di Cesarea, Omelie sull'Esamero[338]

 

 

 

Non tutte le lingue muoiono di bella morte. Tutt'altro. Tuttavia, non dovrebbero essere dati per morti prima del loro termine. "Le lingue finiranno", predisse Paolo, assumendo la stessa sorte per il messaggio dei profeti e per la conoscenza. Aveva in mente il linguaggio del parlare e della gnosi, come suggerisce il contesto? Alla fine, non importa: "L'amore non soccombe".[339] Si può anche intuire che le lingue finiranno per dire che qualcosa di esse non è una pura illustrazione, una mera contingenza, un'incarnazione temporanea. Non sono i meri accidenti di una sostanza che navigherebbe altrettanto bene senza di loro. È la domanda che si poneva già Basilio di Cesarea, per il quale il linguaggio, come per Gregorio di Nissa, è al centro della riflessione teologica. Schleiermacher la mette in un altro modo: "Anche l'assolutamente universale, sebbene sia al di fuori del regno della particolarità, è illuminato e colorato dal linguaggio".[340]Tag: Il cristianesimo, la religione dell'incarnazione, forse non ha bisogno di passare attraverso queste nozioni di sostanza o di universale per impararlo. La nozione stessa di lingue minoritarie, come abbiamo detto nell'introduzione, non coglie il punto se porta a cancellare i volti dei parlanti di queste stesse lingue. Madrelingua e neoparlanti, testimoniano questo amore che non soccombe e che abbraccia con lo stesso slancio la culla e la tomba, la lenga del brèç[341] e, attraverso il verbo espelir, sia la nascita che la rinascita. Allo stesso modo, la meditazione di Paolo sull'amore precede di poco la sua riflessione sulla risurrezione.  "Stolto, ciò che semini non ha forza, se non che sia morto prima."[342] Jn 12,24: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se, al contrario, muore, porta frutto in abbondanza" (TOB). Abbiamo quindi scelto di concentrarci sui frutti portati dai parlanti di queste lingue, e di indagare quali siano state le implicazioni teologiche di questa fruizione.

In primo luogo, attraverso un'esegesi teologica, speriamo di aver mostrato come la confusione delle lingue a Babele non fosse così contraddittoria con l'effusione – l'esultanza – delle lingue della Pentecoste. Quest'ultimo, seguendo una lettura punitiva di Genesi 11, tende a vedere in esso una dispersione linguistica, una figura di disordine. Tuttavia, i sociolinguisti, in particolare, hanno preferito vederla come una condanna di un certo totalitarismo, di un'aspirazione umana all'uniformità, di un'unità feticizzata, di un'iniziativa umana e non divina. Il pluralismo linguistico è voluto da Dio. Questa volontà è il segno del Creatore, che è capace di intervenire in ogni momento nella sua creazione e di dare origine a qualcosa di nuovo; questa volontà si manifesta nella forma dello Spirito, all'opera nel mondo. Le lingue appaiono come il segno del Dio personale e relazionale. Le lingue minoritarie trovano in lui la figura dell'Onnipotente capace di autolimitarsi, di un Dio che non va mai confuso con Cesare, insomma di un Dio che richiama la dignità fondamentale di ogni creatura di Dio, chiamata a distaccarsi dall'assolutismo.

            Questa benevolenza scritturale verso le lingue ha portato la nostra ricerca a esplorare il posto delle lingue minoritarie in relazione a tre figure o tre modi di creare comunità (κοινωνία), prima di tutto le implicazioni teologiche delle lingue in relazione alle persone della Trinità. Poi, abbiamo affrontato la stessa questione in relazione a un κοινωνία compreso attraverso il prisma dell'universale. Poi, abbiamo ristretto lo spettro della relazione attraverso il tema del successivo. In tutti e tre i casi, pensiamo di essere interessati alla forza trainante della relazione. Il nostro secondo capitolo, che si occupa di esaminare come le lingue minoritarie potrebbero essere ordinate a questa o a quella persona della Trinità, è senza dubbio la parte più speculativa. Ovunque Dio è all'opera, ovunque Dio prende l'iniziativa. Mettere in discussione più precisamente i modi di relazione tra le tre persone del Dio uno e trino aveva lo scopo di astrarre un po' un principio che non cessiamo mai di difendere come fondamentalmente e risolutamente incarnato. Mettere in discussione l'universalismo – che non è esattamente l'universale – ha permesso, invece, di studiare una forza capace di creare una comunità in cui l'uomo è più di Dio è l'iniziatore. Abbiamo visto i possibili effetti deleteri sulla diversità, verificando che il logoramento della vita, biologico o linguistico, non era il risultato di alcuna entropia, di alcuna fatalità. Per dirla alla maniera di Eberhard Jüngel, il mondo tende sempre più a diventare ciò che l'uomo ne fa[343]. Così siamo tornati a un altro motore che crea relazioni, e in ultima analisi comunità, guardando a una relazione di principio, quella del prossimo. Abbiamo scelto di attenerci al cambiamento radicale operato dalla parabola del Buon Samaritano. In effetti, in modo particolarmente sottile, le lingue minoritarie sollevano la questione dell'uguale e dell'altro, dell'appropriazione, di una comprensione dell'altro che non sempre è gradita. A causa della situazione vulnerabile dei loro parlanti, della possibile scomparsa della comunità che esprimono e permettono, queste lingue ostacolano, e così facendo ci ricordano, ciò che abbiamo da guadagnare non capindoci l'un l'altro. Se qualche volta abbiamo detto che le lingue non servono principalmente a comunicare, è anche per insistere su questo: a volte abbiamo tutto da guadagnare ad ammettere a noi stessi che non ci capiamo, riconoscendo fin dall'inizio che non mettiamo le stesse realtà dietro le stesse parole. Come conservare nel dialogo e per il dialogo ciò che è concreto in ogni tradizione e non deve essere cancellato dall'illusione di una parola o di una nozione comune? Una prima risposta sarebbe quella di ricordare sempre, come preambolo, prima di ogni dialogo, come, secondo le parole di Pascal, siamo in grado di ingannare noi stessi. Questo è senza dubbio un prerequisito per una seconda fase, che potrebbe essere quella in cui si può fare comunità cercando di concordare "sulla dimensione dello spazio delle variazioni all'interno della quale riconosciamo che i nostri disaccordi sono effettivamente nostri"[344]. La nozione di variazione non è mai lontana.

            Infine, abbiamo voluto affrontare la questione della diversità delle lingue da una prospettiva escatologica. Che significato si può dare alla variazione di fronte a quella che viene presentata come la risoluzione finale? Ci avviciniamo alla dimensione escatologica attraverso la nozione di speranza, che, ci sembra, ci riporta inevitabilmente al mondo, percepito non più come luogo di implacabilità, ma come tempo di azione. L'escatologia ci permette di mettere in tensione l'agire umano e ci porta a tornare a un punto di partenza, ma cambiato o sostenuto dalla speranza. Seguendo Charles Matthewes nella sua comprensione di una speranza che ci coinvolge nel mondo che cambia, abbiamo considerato come il mantenimento della diversità linguistica – sempre pensata sulla base delle lingue minoritarie – faccia parte della quell'arena pubblica dove la speranza ci conduce, e dove la speranza ci sostiene: "Sappiamo che la speranza ci cambierà, in un modo che non comprendiamo pienamente, e in effetti in un modo che non vogliamo comprendere appieno in questo momento, per non parlare di soffrire".[345]

Alla fine, abbiamo cercato di mostrare come la diversità linguistica, e il fatto linguistico fondamentale della variazione, possa essere compresa come parte del disvelamento di Dio. Più che un esempio limite, crediamo che l'esempio delle lingue minoritarie sia stato un esempio concreto di incarnazione del Verbo. Ma non ci siano malintesi. Certamente, la nostra ricerca può essere intesa come rientrante nella categoria della domanda "dov'è Dio?"[346]Tag: Allo stesso modo del giudizio di Claude Geffré[347] sulle religioni del mondo, che ci ha accompagnato in tutta questa ricerca, potremmo rispondere dando un giudizio positivo sulle lingue del mondo. Potremmo anche, con tutta la riluttanza che si addice a una teologia protestante, o nonostante essa, riconoscerla come al servizio della rivelazione[348]. Potremmo aggiungere: non tutta la diversità è Dio[349]. Per dirla meglio: nulla della diversità è Dio, non più di quanto Dio lo sarebbe nell'asimmetria o nella dissonanza. E se diciamo che il molteplice è, se non il modo privilegiato di espressione dell'Uno, almeno uno dei suoi modi di espressione, non stiamo dicendo che ogni diversità è il modo di espressione dell'Uno.  Abbiamo anche visto che la variazione nell'uomo non è paragonabile alla variazione nella natura: come sottolinea la Scrittura, gli esseri umani sono tutti fratelli. La variazione linguistica assume quindi un significato particolare. Dio vuole i molti. Le lingue minoritarie contribuiscono alla nuova e perpetua creazione che Dio sta portando nel nostro presente. Il linguaggio si scontra certamente con la radicale inadeguatezza di qualsiasi linguaggio a parlare dell'ineffabile Dio. Ma il silenzio è di per sé inadeguato, come ha sottolineato Eberhard Jüngel[350]

Tuttavia, questa ricerca, da parte nostra come prima approssimazione come approccio frontale alla questione delle lingue minoritarie nelle sue implicazioni teologiche, mira meno – e per nulla – alla metafisica o alla teologia naturale, che a richiamare l'attenzione su un principio creativo, la variazione, talvolta percepita come segno di imperfezione. Vedere nella diversità linguistica, come nella diversità religiosa, una ricchezza, un riflesso dello Spirito e della sua abbondanza creatrice, è richiamare la dignità fondamentale di ciascuno di noi, quando viene deriso per l'uso linguistico, la perseveranza di uno stile di vita. Va ricordato che le ramificazioni di queste domande non sono aneddotiche, ma in ultima analisi riguardano l'onore di Dio, o portano alla rinuncia alle potenzialità e alle benedizioni della creazione. Le lingue minoritarie portano a un decentramento del sé, sono il rifugio di un discorso fragile, rifugio di una presa di coscienza dell'ingiustizia vissuta quotidianamente nella frustrazione di un movimento spontaneo e così intimo, quello di parlare la propria lingua, designare il proprio ambiente e luoghi familiari nella propria lingua. Per le altre lingue minoritarie, ogni lingua minoritaria diventa segno dell'irriducibilità di tutte le altre, di ciascuna, in comunione universale. Le lingue non muoiono di morte naturale, ma "in ultima analisi, l'assassino e la vittima sono la stessa cosa. Possiamo concepire l'unità del genere umano solo se riusciamo a concepire, in tutto il suo orrore, la verità di questa equivalenza ultima. [351] È quindi necessario respingere l'attrito delle lingue come inevitabile e applicare alle lingue ciò che Claude Geffré chiama "la responsabilità comune delle religioni per il futuro dell'umanità e per la protezione del pianeta Terra. [352] Se la responsabilità della teologia è quella di mantenere un linguaggio vivo, inequivocabile, ma mai inequivocabile, possiamo dire ancora con Jenson: «La teologia è pensare a cosa dire per dire il Vangelo. [353] È come dire: "Gesù Cristo! ", una confessione di fede, un proclama, uno slogan che rifiuta ogni fatalismo. Questo è ciò che ci ricorda Christopher Rowland: "L'antropologia teologica, informata dalla pneumatologia, interroga il fatalismo"[354] e con esso le ragioni della disperazione o della rinuncia al cambiamento. Questa vessazione permanente dei più deboli, anche se sono, agli occhi di alcuni, i vinti o i perdenti, trova un'eco innegabile sia nella narrazione biblica che nel messaggio della Chiesa di Gesù Cristo, la Chiesa di tutte le lingue (Ap 5,9).

Forse è giunto il momento di insistere meno sul logoramento delle lingue minoritarie che sulla loro presenza anche oggi, in un momento in cui ci vediamo sempre più come la fine dei tempi. In questa fantasia apocalittica, non sarebbe il minimo merito di queste lingue essere giunte alla fine dei tempi in gran numero e vive, allo stesso modo delle lingue divenute egemoniche. Nel mondo biblico, il nuovo giorno inizia all'inizio del crepuscolo. Nei cieli infuocati del tramonto, dal tramonto all'alba, da Pentecoste a Pentecoste, possiamo continuare a vedere nella creazione il già presente del Regno.

 

 


 

Bibliografia

 

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[1] Jean Calvin, Institution de la religion chrétienne [1559], t. 3, III, 25, 3, ed. Jean-Daniel Benoît, Paris, Vrin, 1960, p. 478.

[2] Friedrich Schleiermacher, Des différentes méthodes du traduction, trad. di Antoine Berman, Paris, Seuil, 1999, p. 85.

[3] Aimé Césaire, "Lettre à Maurice Thorez" [24 ottobre 1956], Parigi, Présence africaine, 1956, p. 16.

[4] Useremo la nozione di variazione linguistica come dato empirico. Le lingue variano "nel tempo (diacronia), nello spazio (diatropia), nella società (diastratia) e secondo le situazioni comunicative (diafasia)". GLESSEN Martin, KABATEK Johannes, VÖLKER Harald, "Rethinking Linguistic Variation – Rethinking Variational Linguistics", in ID. (ed.), Rethinking Linguistic Variation, Strasburgo, Éditions de Linguistique et de Philologie, 2018, p. 3. Partiamo dall'idea che "la variazione è inerente al linguaggio, cioè costitutiva di esso, e non un semplice fatto del discorso". (Ivi, pp. 4-5).

[5] Per una definizione più precisa, si veda il Diccionari de sociolingüística: "Una lingua che, pur essendo la lingua madre della maggior parte della popolazione indigena, soffre di una restrizione dei suoi domini e delle sue funzioni d'uso in un determinato territorio, in modo che non serva o non sia necessaria per la maggior parte delle occasioni o delle aree in cui è necessario utilizzare la comunicazione verbale. Una lingua è diventata una minoranza a seguito di un processo di bilinguismo della sua comunità linguistica che ha portato all'emarginazione o alla subordinazione linguistica. ", Diccionari de sociolingüística, art. "Llengua minoritzada", Barcellona, Enciclopèdia catalana, 2001, p. 178 (traduzione mia).

[6] Theodore Bibliander, De ratione communi omnium linguarum et literarum commentarius, éd. Hagit Amirav, Hans-Martin Kirn, Genève, Droz, 2011, p. xxiv : « Nel De ratione Bibliander ha trattato la pluralità empirica delle lingue in analogia con la pluralità delle religioni nel mondo. La ricerca di un "principio" comune – nel senso di regole condivise o di una struttura comune – per tutte le lingue ha portato di conseguenza alla questione dell'unità nascosta di tutte le religioni in convinzioni di base condivise, per esempio, la fede nella creazione del mondo da parte di Dio e nella sua provvidenza, che sono state esposte nella parte apologetica alla fine del De ratione. ».

[7] Raimon Panikkar, Le dialogue intrareligieuse, tr.fr Josette Gennaoui, Paris, Aubier, 1985, p. 42. Per una discussione aggiornata dei dibattiti relativi al dialogo interreligioso e interculturale, si vedano Christophe Chalamet, Élio Jaillet e Gabriele Palasciano (a cura di).), Teologia comparata. Verso un rinnovato dialogo interreligioso e interculturale?, Ginevra, Labor et Fides, 2021.

[8] Ivi, p. 46. Le parentesi sono dell'autore.

[9] Patrick Sauzet, "Occitano: l'importanza di essere una lingua", Cahiers de l'Observatoire des pratiques linguistiques, 2012, p. 88.

[10]Ibid.: "L'occitano è un caso da manuale in termini di status linguistico. Non è definita da nulla di esterno, geografia, storia o migrazioni dei popoli. L'Occitania non è un'isola, e nemmeno una penisola. Non formava esattamente un regno o uno stato di cui la lingua sarebbe stata il simbolo o la traccia. Infine, l'occitano è, come sappiamo, una lingua romanza circondata da lingue romanze: non è tagliato (tranne che nel contatto basco) dall'effetto di ritorno del contrasto linguistico radicale di dialetti di un'altra famiglia linguistica. Una differenza genetica così forte o radicale fa sì che, qualunque sia la variazione interna del dominio basco o del dominio bretone, essi sono percepiti nonostante questa variazione come il dominio di un'altra lingua e quindi di una lingua (possibilmente disprezzata o rifiutata, questa è un'altra questione). Né l'occitano è una lingua portata all'esterno da qualsiasi altra istituzione di cui sarebbe l'espressione o il simbolo, la chiesa, il partito o il movimento di liberazione. Per tornare alla formula citata all'inizio, l'occitano non ha una Marina o un equivalente di Marina, motivo per cui l'ho descritto come una "lingua nuda" (Sauzet 2008). "Non ne sono sicuro

[11] La teologa Grace Ji-Sun Kim sottolinea in modo particolare questo legame tra linguaggio e visibilità. Si veda, in particolare, Grace Ji-Sun Kim, Invisible: Theology and the Experience of Asian American Women (Minneapolis: Fortress Press, 2021).

[12] Alain Badiou ha così denunciato l'interesse per le questioni linguistiche (la "svolta linguistica") "come un abbandono della preoccupazione filosofica per le verità [...]. Per Badiou, l'ossessione per la mediazione culturale inaugura un relativismo politicamente ed eticamente invalidante. Steven Shakespeare, "Linguaggio", in Nicholas Adams, George Pattison, Graham Ward (a cura di), The Oxford Handbook of Theology and Modern European Thought (Oxford: Oxford University Press, 2013), p. 106. Cfr. Alain Badiou, L'être et l'événement, Paris, Seuil, 2018. Quentin Meillassoux, Dopo la finitudine. Essai sur la necessity de la contingence, Parigi, Seuil, 2012.

[13] Il termine "assoluto" si riferisce al dibattito ottocentesco sul carattere personale o assoluto di Dio, poiché la teologia protestante ha imparato molto chiaramente la lezione di Ritschl di un Dio in relazione alla sua creatura. Cfr. Christophe Chalamet, Teologie dialettiche. Le origini di una rivoluzione intellettuale, Ginevra, Labor et Fides, 2013, p. 70: «Se non vuole cedere alla tentazione della metafisica e della speculazione hegeliana, la teologia protestante deve smettere di parlare di Dio come di un essere 'assoluto' ('separato', ab-solutus), 'in se stesso' e quindi senza relazione con la sua creatura».

[14] Klauspeter Blaser, "L'Esprit", in André Birmelé, Pierre Bühler, Jean-Daniel Causse, Lucie Kaennel (a cura di), Introduction à la théologie systematique, Genève, Labor et Fides, 2008, p. 292.

[15] Ibid.

[16] Il 16 novembre 1965 fu firmato il Patto delle Catacombe della Chiesa dei Servi e dei Poveri. Facendo eco a questo primo Patto delle Catacombe, il 20 ottobre 2019, sempre presso le Catacombe di Santa Domitilla a Roma, è stato firmato un documento presentato come patto rinnovato, sotto il titolo di Patto delle Catacombe per la Casa Comune: per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana.

[17] Si veda la traduzione francese del documento sul sito web della Conferenza Episcopale Francese: https://mission-universelle.catholique.fr/wp-content/uploads/sites/7/2019/10/Pacte-des-Catacombes-pour-la-Maison-commune.pdf (ultimo accesso: 19 gennaio 2023).

[18] Papa Francesco, "Esortazione apostolica post-sinodale Querida Amazonia del Santo Padre Francesco al popolo di Dio e a tutti gli uomini di buona volontà", 2 febbraio 2020, https://www.vatican.va/content/dam/francesco/pdf/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20200202_querida-amazonia_fr.pdf (ultimo accesso: 19 gennaio 2023).

[19] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 106.

[20] Ivi, p. 63.

[21] Thomas Römer, "Biblical Milieus", in L'annuaire du Collège de France [Online], 113 | 2014, pubblicato online il 15 agosto 2014 https://journals.openedition.org/annuaire-cdf/2480, p. 406. (ultimo accesso: 19 giugno 2022).

[22] John Kessler, « Teologia della creazione », in Teologia dell'Antico Testamento, Waco, Baylor University Press, 2013, p. 170.

[23] Matthias Albani, «Il monoteismo in Isaia», in Lena-Sofia Tiemeyer, The Oxford Handbook of Isaiah, Oxford University Press, 2021, p. 225 : « La teologia della creazione nel Deutero-Isaia non è un fine in sé, ma il mezzo per dimostrare il potere di YHWH sulla storia ».

[24] Thomas Römer, "Ambienti biblici", p. 406.

[25] André Wénin, "Cibo a base di carne – Riflessioni dalla Torah", Communio n. 259 (2018), p. 56.

[26] Ivi, 51.

[27] Ivi, p. 52.

[28] Ivi, p. 54.

[29] Paul Beauchamp, Testament biblique, Bayard, Paris, 2001, p. 27; citato da André Wénin, "La alimentation carnée", p. 54.

[30] Thomas Römer, "Ambienti biblici", p. 406.

[31] David M. Carr, Genesi 1-11 IECOT, Stoccarda, Kohlhammer, 2021, p. 991 n 5a. La parola "popolo" non è di per sé un termine progressista, tuttavia: "È legittimo parlare della parola "popolo" in relazione a questo gruppo, in quanto non ha diritto alla considerazione di cui gode il popolo ufficiale agli occhi dello Stato". Badiou include sia "lo zoccolo duro delle masse inesistenti" sia i popoli che lottano per ottenere la nazionalità in una lotta decoloniale. Si veda, in particolare, Alain Badiou, "Ventiquattro note sugli usi della parola popolo", in Pierre Bourdieu, Judith Butler, Georges Didi-Huberman, Sadri Khiari, Jacques Rancière, Qu'est-ce qu'un peuple?, Parigi, La Fabrique édition, 2013, p. 18.

[32] NBS, Edizione di studio, Gen 10, nota 10,1, p. 37.

[33] Markus Witte, "Völkertafel", in WiBiLex, articolo pubblicato nel luglio 2011, ultima versione del 20 agosto 2018, (ultimo accesso: 19 giugno 2022), https://www.bibelwissenschaft.de/stichwort/34251/.

[34] David M. Carr, Genesi 1–11, pp. 293-294.

[35] Ivi, p. 308.

[36] Ivi, p. 308, n. 56.

[37] Ibid.

[38] Thomas Römer, "Biblical Milieus", p. 406: "La differenziazione in base alle lingue va di pari passo con l'insediamento di gruppi umani in luoghi diversi. Tra Genesi 9 e 11, la Bibbia ebraica conserva tre resoconti contraddittori: Genesi 9:18-27 ("L'ubriachezza di Noè") che introduce una separazione e una gerarchia tra i figli di Noè; Genesi 10 ("La Tavola delle Nazioni") e, in Generazione 11:1-9, la storia/narrazione della "Torre di Babele". Il testo più neutrale è quello di Genesi 10: un elenco genealogico con un numero impressionante di nomi, alcuni dei quali ancora resistono alla spiegazione. Nella sua forma attuale, il testo è confuso; lo diventa meno quando ci accorgiamo che, in questa forma, combina elementi "P" e non-P. ».

[39] Ibid.

[40] Albert de Pury, Thomas Römer, Konrad Scmid, L'Antico Testamento commentato. La Genèse, Paris/Genève, Bayard/Labor et Fides, 2016, p. 66.

[41] Ibid.

[42] Thomas Römer, "Ambienti biblici", p. 407.

[43] David M. Carr, Genesi 1–11, p. 330.

[44] Il greco antico χέω, versare, corrisponde al sanscrito जुहोति (juhóti) e al latino latino fondoō. I suffissi συν- e- hanno gli stessi valori in greco e in latino, specialmente come intensivo.

[45] David M. Carr, Genesi 1–11, p. 314; note 4b et 8a, p. 315.

[46] Ivi, nota 8a, p. 315.

[47] Ibid., p. 332, Il commentatore qui si riferisce a Giuseppe Formica. 1.113-114; ma anche in Pseudo-Filone 4.7; 6.13-14; e infine Filone  QG 2.82.

[48] Ibid.

[49] Ivi, p. 333. Il commentatore si spinge anche oltre, sottolineando che il testo, in un certo senso, sarebbe più aperto a una critica della "tirannia democratica di una collettività internazionale (ad esempio, le Nazioni Unite)" (cfr . p. 332).

[50] David M. Carr, Atti: un commento, p. 333.

[51] Ibid.

[52] Ivi, p. 332.

[53] Carl R. Holladay, Atti: un commentario (The New Testament Library) Louisville, Westminster, 2016, p. 94.

[54] Craig S. Keener, « La prima effusione dello Spirito (1:1-2:47). Un capovolgimento di Babele (Genesi 11:1-9) » in Craig S. Keener, Acts: An Exegetical Commentary, vol. 1: Introduzione e 1:1-2:47, Grand Rapids, Baker Academic, 2012, p. 842.

[55] Carl R. Holladay, Atti: un commento, p. 65.

[56] Ivi, p. 89.

[57] Ivi, p. 66.

[58] Ibid.

[59] Carl R. Holladay, Atti: un commento, p. 92 : « La capacità degli apostoli di parlare in altre lingue [...] dovrebbe essere distinto dal discorso estatico e incomprensibile di 1 Cor 12-14. ».

[60] Frédéric Martin , Les mots grecs, Paris, Hachette, (1937) 1990, p. 76.

[61] Ibid.

[62] Ibid.

[63] Lamin Sanneh ha detto della traduzione che è la vera lingua del cristianesimo. Lamin Sanneh, Di chi è la religione cristiana? Il Vangelo oltre l'Occidente, Grand Rapids/Cambridge, Eerdmans, 2003, p. 97. Il teologo di Yale ha anche sottolineato il contributo della missione alla preservazione delle lingue indigene (cfr Id., Translating the Message: The Missionary Impact on Culture [New York: Orbis Books, 1989).

[64]Dante Alighieri, De l'éloquence en vulgaire, I, 1, 2, traduzione e commento a cura di Irène Rosier-Catach, Paris, Fayard, 2011, p. 73.

[65] Carl R. Holladay, Acts: A Commentary, p. 93 : « il v. 5 suggerisce residenti ebrei che vivevano a Gerusalemme piuttosto che pellegrini ebrei provenienti da fuori della Palestina che erano venuti a Gerusalemme per la Pasqua ebraica e la Pentecoste. ».

[66] Martin Dibelius, Saggi sugli Atti degli Apostoli [1951], Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 51968, pp. 120-162.

[67] Andreas Dettwiler, Simon Butticaz, "Lezione 4: L'opera lucana (Lc-Ac)", riletta da Anne-Catherine Baudoin, lezione del corso "Nuovo Testamento Brevetto 1. Introduzione al Nuovo Testamento", Università di Ginevra, 2020, p. 9. Gli autori si riferiscono in particolare a Eckhard Plümacher, "Die Apostelgeschichte als historische Monographie", in Jacob Kremer (ed.), The Acts of the Apostles. Tradizioni, redazione, teologia (BEThL 48), Gembloux/Leuven, Duculot/Leuven University Press, 1979, pp. 457-466.

[68] Legata alle nozioni di lingua minoritaria e di conflitto linguistico, la nozione di diglossia si riferisce al fenomeno della monopolizzazione degli usi linguistici da parte di una lingua esterna, relegando la lingua indigena a usi definiti, in particolare in circoli familiari e professionali ristretti, ecc. È anche in questo senso che nel nostro studio faremo riferimento alla nozione di diglossia. Cfr., tra l'altro, José María Sánchez Carrión, "Bilingüismo, disglosia y contacto de lenguas", Anuario del Seminario de Filología Vasca Julio de Urquijo, vol. 8, n. 1, 1976.

[69] Craig S. Keener, Atti, p. 821 : « Molto più problematico, Luca non fornisce alcuna implicazione che la diglossia fosse in vista o che ci si debba aspettare che i discepoli abbiano parlato solo ebraico in questa o in un'altra occasione. ».

[70] Carl R. Holladay, Atti, p. 95; su questo argomento, si veda anche Craig S. Keener, op. cit., p. 835.

[71] John P. Meier, « Che lingua parlava Gesù? », in A Marginal Jew, vol. 1, New Haven/London, Yale University Press, 1991, pp. 255-268.

[72] John P. Meier, « Gesù era analfabeta? », in op. cit., pp. 268-278.

[73] Graydon Colville, « La fede viene dall'ascolto? A proposito di società orali La fede viene dall'udito? A proposito di società orali. Traduzione della Bibbia, Registrazioni audio e compito missionario », (dernier accès : 11 gennaio 2023),  https://globalrecordings.net/en/about-oral-societies.

[74] UNESCO, « Tradizioni ed espressioni orali tra cui la lingua come veicolo del patrimonio culturale immateriale », (dernier accès : 11 gennaio 2023),  https://ich.unesco.org/en/oral-traditions-and-expressions-00053.

[75] Jens Schröter, Gesù di Nazareth. Alla scoperta dell'uomo di Galilea, orig. Jesús von Nazaret, Juda aus Galiläa – Retter der Welt [2017], trad. Marianne David-Bourion e Gilles Sosnowski, Ginevra, Labor et Fides, 2018, p. 101.

[76] Amos Yong, Oltre l'impasse. Verso una teologia pneumatologica delle religioni, Grand Rapids/Carlisle, Baker Academic/PaterNoster Press, 2003, p. 72.  

[77] Ibid.

[78] Nel caso di Babele, l'impero in questione sarebbe quindi l'impero mesopotamico, interpretazione respinta dall'esegeta. Cfr. David M. Carr, Genesi 1–11, 332.

[79] Carl R. Holladay, Atti, p. 94.

[80] Patrick Sauzet, « L'occitan : langue immolée », in Geneviève Vermès (dir.), Vingt-cinq communautés linguistique de la France, Paris, L'Harmattan, 1988, p. 214 n. 2.

[81] Patrick Sauzet, "Diglossia, conflitto o tabù?", p. 8.

[82] Ibid.

[83] Ibid.

[84] Ibid.

[85] Ivi, p. 5.

[86] Patrick Sauzet, "Occitano: l'importanza di essere una lingua", p. 101.

[87] Ibid.

[88] Ibid.

[89] Daniel M. Carr, Genesi 1–11, p. 332.

[90] Ibid.

[91] Dominic Crossan, Dio e l'Impero, p. 28.

[92] Ibid.

[93] Dominic Crossan, Rendere a Cesare, p. 21 : « Cesare e Dio non sono identificati ».

[94] Ibid. : « Se Cesare e Dio non sono né identificati né equiparati, come sono associati, accomodati, adattati, assimilati o acculturati l'uno all'altro nel mondo reale in cui tutti viviamo? ».

[95] Ibid. : « Si noti che questi cinque verbi rappresentano il classico pendio scivoloso verso la piena acculturazione. ».

[96] Ibid. : « Con questa parola designo una profonda integrazione nella cultura circostante in modo che tu nuoti in essa senza intoppi, inconsciamente e acriticamente, come un pesce. ». 

[97] Ibid. : « L'acculturazione è il freno della normalità, l'esca del conformismo, la maledizione del carrierismo che può – sotto certi leader, in certe circostanze, in certi tempi e luoghi – trasformare alcuni di noi in mostri, molti di noi in bugiardi e la maggior parte di noi in codardi. ».

[98] Ibid. : « La questione del governo divino e dell'acculturazione umana ».

[99] Ibid.

[100] Adriana Destro, Mauro Pesce, "Gesù era un rivoluzionario politico?", in Andreas Dettwiler (a cura di), Gesù di Nazareth. Études contemporaines, Ginevra, Labor et Fides, 2017, pp. 218 e 222.

[101] Patrick Sauzet, "Diglossia, conflitto o tabù?", p. 15.

[102] John Dominic Crossan, Dio e l'Impero, p. 60.

[103] Ibid.

[104] Robert S. McElvaine, Il seme di Eva: la biologia, i sessi e il corso della storia, New York, McGraw-Hill, 2001, p. 100; cité par Crossan, Dio e l'Impero, p. 61.

[105] David M. Carr, Genesi 1-11, p. 179: « La morte di Abele per mano di Caino (4:8) rappresenta il primo esempio della mortalità umana che è stata proclamata come inevitabile alla fine della storia del giardino dell'Eden (3:17-19, 22, 24). ».

[106] Patrick Sauzet, "Diglossia: conflitto o tabù", p. 15.

[107] Ivi, p. 16.

[108] Ibid.: Il tema dell'elezione casuale "[è] ritrovato nel 1807 nell'opera di Jean-Julien Trélis, dove [esso] si sviluppa da un gioco di specchi tra le due lingue: l'occitano rimane per sempre l'immagine della nascente purezza che il francese ha perso, quest'ultima lingua offre reciprocamente l'immagine della degenerazione che l'occitano non avrebbe mancato di sperimentare se il destino delle lingue fosse stato invertito"; Philippe Martel, "Jean-Julien Trélis: De l'idiome languedocien et de celle du Gard en particulier, édition du manuscrit", Lengas, n° 24 (1988), pp. 101-118.

[109] Ibid.

[110] Cfr.  Joachim du Bellay, La Deffence, et illustration de la langue françoyse [1549], ed. Francis Goyet, Olivier Millet et al., Paris, Champion, 2003.

[111] Gli scolari francesi hanno imparato da tempo che nel Medioevo la Francia era linguisticamente divisa tra la lingua d'oïl a nord e la lingua d'oc a sud, il che suggerisce che l'occitano non esiste più. Inoltre, Patrick Sauzet cita il poema La coumtesso (1866) in cui "Mistral elabora il conflitto delle due lingue come un conflitto di doppi. [...] Entrambe le lingue sono rappresentate da sorelle. L'uno regna sulla proprietà dell'altro, che tiene rinchiuso e lo fa sembrare morto"; Patrick Sauzet, "Diglossia: conflitto o tabù", p. 15.

[112] David M. Carr, Genesi 1–11, p. 184.  

[113] Questa articolazione tra violenza e dominio, in connessione con questo suolo (אֲדָמָה Gen 4,2) di cui Caino è descritto per la prima volta come un servo, è stata sottolineata dall'esegesi ecofemminista di Brigitte Kahl: "Eva canta di aver creato un 'uomo' (איש) piuttosto che un bambino all'inizio della storia, un 'uomo' che inizia 'servendo' (עבד) il suolo, ma finisce per anticipare l'attuale crisi ecologica nel modo in cui inquina il suolo con il sangue di suo fratello, distruggendo il suo rapporto con lui (Gen 4,11-12). Brigitte Kahl, "Fratricidio ed ecocidio: rileggere Genesi 2–4", in Dieter Hessel e Larry Rasmussen (a cura di), Earth Habitat: Eco-Injustice and the Church's Response (Minneapolis: Fortress Press, 2001), 57; citato in David M. Carr, Genesis 1–11, 184.

[114] David Carr nota la natura deliberata dell'atto di Caino (Genesi 4:8): David M. Carr, Genesi 1–11, 165.

[115] John Dominic Crossan, Dio e l'Impero, p. 139.

[116] Patrick Sauzet, "Linguaggio immolato", p. 244.

[117] Ibid.

[118] Ibid.

[119] Ivi,  p. 24.

[120] Guy Lasserre, I sacrifici nell'Antico Testamento, Ginevra, Labor et Fides, 2022, p. 25; per la perdita del rapporto con YHWH e le implicazioni della scelta deliberata dell'omicidio da parte di Caino, ci riferiamo a Carr, Genesi 1–11, 165.

[121] Ibid.

[122] Jacques Dupuis, Verso una teologia del pluralismo religioso, Parigi, Cerf, 1997, p. 297: «Gesù suggella così l'alleanza con i poveri».

[123] Cito qui la risposta di Bernard Vernières a un sondaggio da me condotto nell'ambito di un DPR di Teologia Pratica, UNIGE, il 22 novembre 2021: "Una lenga de paures conven melhor per celebrar la kenòsi del Vèrb".

[124] Aloysius Pieris, "Universalità del cristianesimo?", p. 595; citato da Jacques Dupuis, op. cit. cit., p. 297.

[125] Christopher Rowland, « Teologia della liberazione », in John Webster, Kathryn Tanner, Iain Torrance (éd.), The Oxford Handbook of Systematic Theology, New York, Oxford University Press, 2007, p. 650.

[126] Ibid.

[127] Patrick Sauzet, "Diglossia, conflitto o tabù?", p. 2.

[128] John B. Thompson, "Préface" [1990], trad. di Émilie Colombani, pref. di Pierre Bourdieu, Langage et pouvoir symbolique, Paris, Seuil, 2004, p. 7.

[129] Hubert Bost, Babele. Dal testo al simbolo, Ginevra, Labor et Fides, 1985, pp. 191-197.

[130] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 37.

[131] Claude Geffré annovera la dimensione dialogica tra i «nuovi approcci all'universalità del cristianesimo», Claude Geffré, op. cit., p. 36; oppure «È da [...] della manifestazione di Dio nella particolarità storica di Gesù di Nazareth, che è necessario dimostrare il carattere non imperialista e necessariamente dialogico del cristianesimo. Ivi, p. 36.

[132] Ibid.: "... L'ecumenismo interreligioso non porta necessariamente all'indifferentismo o al relativismo; Né ha uno scopo puramente pratico, cioè l'emulazione reciproca tra le religioni per un contributo più efficace alla pace nel mondo e alla salvaguardia dell'autentico essere umano. È un'esigenza del pensiero nella misura in cui ogni incontro con l'"altro" veramente altro ci provoca ad accettare le conseguenze della nostra storicità e a relativizzare i nostri modelli di comprensione ricevuti. »

[133] Ivi, p. 62.

[134] "Ama l'Eterno, il tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutto il tuo essere e con tutta la tua forza", Deuteronomio 6:5; TOB.

[135] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 62.

[136] Ibid.

[137] Ivi, p. 63.

[138] Ivi, p. 64.

[139] Ci riferiamo prontamente a Nicola Cusano, che sembra intravedere, a scopo escatologico, un sostentamento non della creatura, ma dell'uomo nella sua unità, non intrinseca, ma ottenuta per mezzo di Cristo. DE CUES Nicolas, De docta ignorantia, ROTTA Paolo (ed.), 1913, Bari, G. Laterza & Figli, p. 130: "Sed si homo elevatur ad unitatem ipsius potentiae, ut non sit homo in se subsistens creatura, sed in unitate infinita potentia, non est illa potentia in creatura, sed in se ipsa terminata."; tr.fr. CAYE Pierre, LARRE David, MAGNARD Pierre, VENGEON Frédéric, Paris, Flammarion, 2013, p. 176: "Ma se un uomo è elevato all'unità con questa stessa potenza, fino al punto di essere una creatura sussistente non in se stessa ma nella sua unità a potenza infinita, questa potenza non è delimitata dalla creatura, ma da se stessa". Oppure ID., op. cit. cit., p. 133: "... Omnis creatura in ipsa humanitate summa et perfectissima universaliter omnia creabilia complicanti, ut sit omnis plenitudo ipsum inhabitans" che rendiamo da ed. "Ogni creatura [esiste] in quell'umanità suprema e più perfetta che abbraccia universalmente tutto ciò che è capace di essere creato, così che trova in [Gesù] tutta la sua pienezza".

[140] Claude Geffré, op. cit. Ivi, p. 62.

[141] Ibid.

[142] Ibid.

[143] Ibid.

[144] Ibid., p. 35: "La religione è radicalmente plurale". Di fronte all'affermazione di Geffré, si potrebbe azzardare ad affermare che dove la religione è radicalmente plurale, la lingua tende naturalmente a uniformarsi, a pretendere di essere un'unica lingua.

[145]André Gounelle, "Religione", in Vocabulaire théologique [online], (ultimo accesso: 19 giugno 2022), http://andregounelle.fr/vocabulaire-theologique/religion.php.

[146] Claude Geffré, op. cit. Citazione. Ivi, p. 55.

[147] Sul motivo mitologico e la nozione di Chaoskampf, evidenziata dalla tesi di Hermann GUNKEL, Schöpfung und Chaos in Urzeit und Endzeit, 1895, si veda SCURLOCK JoAnn, BEAL Richard H., Creation and Chaos: A Reconsideration of Hermann Gunkel's Chaoskampf Hypothesis, Penn State University Press, Eisenbrauns, 2013.

[148] Claude Geffré, op. cit., p. 62.

[149] Sull'autorità della Scrittura, si veda, ad esempio, Robert W. Jenson, Systematic Theology, vol. 1 (Oxford/New York: Oxford University Press, 1997), pp. 23-41.

[150] Paul Tillich, Systematic Theology, vol. 3, Chicago, The University of Chicago Press, 1963, p. 6: « La teologia sistematica protestante deve prendere in considerazione l'attuale relazione più affermativa tra cattolicesimo e protestantesimo. La teologia contemporanea deve considerare il fatto che la Riforma non è stata solo una conquista religiosa, ma anche una perdita religiosa. Sebbene il mio sistema sia molto esplicito nella sua enfasi sul "principio protestante", non ha ignorato la richiesta che la "sostanza cattolica" sia unita ad esso, come mostra la sezione sulla chiesa, una delle più lunghe di tutto il sistema. »; Paul Tillich, Substance catholique et principe protestant, Genève/Paris/Laval, Labor et Fides/Cerf/Presses de l'Université de Laval, 1996.

[151] Paul Tillich, "L'idea di una teologia della cultura", in ID., La dimension religieuse de la culture, Genève/Paris/Laval, Labor et Fides/Cerf/Presses de l'Université de Laval, 1990, p. 34.

[152] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 84.

[153] Langdon Gilkey, « Tillich: il maestro della mediazione », in Charles Kegley (ed.), in La teologia di Paul Tillich, New York, The Pilgrim Press, p. 49.

[154] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 52.

[155] Ivi, p. 49.

[156] Geffré ricorda che per Karl Barth la questione, ad esempio, del pluralismo religioso de facto o de jure era "una vana questione teologica perché la Scrittura non fornisce una risposta a tale enigma", Claude Geffré, Da Babele a Pentecoste, p. 47.

[157] Ibid., p. 63: "Certamente, come le culture, le religioni sono segnate dall'ambiguità".

[158] Thomas Römer, "Ambienti biblici", p. 406

[159] Robert W. Jenson, Teologia sistematica, vol. 2, p. 63 : « Come inizia il nostro discorso? ».

[160] Thomas d'Aquin, Summa Theologica, 2a 2ae Q 176, Paris, Cerf, 1985, pp. 1004-1007.

[161] Jean Calvin, Institution de la religion chrétienne [1559], t. 3, III, 25, 3, Jean-Daniel Benoît (ed.), Paris, Vrin, 1960, p. 477: "Perché Gesù Cristo non ha fatto i mostri e i trionfi della sua vittoria, in mezzo al tempio e nelle pubbliche piazze? Perché non si presentò formidabile in maestà davanti agli occhi di Pilato? Perché non si mostrò vivo ai sacerdoti e a tutta la città di Gerusalemme? ».

[162] Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, p. 1005.

[163] Ibid.

[164] Ibid.

[165] Ibid., p. 1006: "Il dono della profezia fa conoscere le realtà stesse".

[166] Ibid.: "Colui che parla in lingue 'non parla agli uomini', perché non parla al loro intelletto, né parla per il loro beneficio; ma si rivolge solo all'intelletto di Dio, e si esprime solo per la sua gloria. Attraverso la profezia, al contrario, l'uomo si rivolge a Dio e al prossimo; Ecco perché è un regalo più perfetto. "Non ne sono sicuro

[167] Ibid.

[168] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 89; Zumstein dice la stessa cosa: "Il termine Logos è conosciuto sia nella tradizione ebraica dell'Antico Testamento che nel mondo ellenistico, e in questo ambiente complesso designa uno dei modi in cui Dio si manifesta. [...] il volto di Dio per il mondo è sussunto nella nozione di Logos. Jean Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni, p. 56.

[169] "Il Logos era Dio" (θεὸς ἦν ὁ λόγος; Gv 1,1).

[170] Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, edizione bilingue francese-tedesco con introduzione, note e commento, éd. Peter Wunderli, Göttingen, Narr Verlag, 2013, p. 396.

[171] Ibid.

[172] Ibid.

[173] Ibid.

[174] Jules Ronjat, Lo sviluppo del linguaggio osservato nei bambini bilingui, a cura di Pierre Escudé, Francoforte/Berna, Peter Lang, 2013, p. 38.

[175] Fernand Hallyn, Georges Jacques (a cura di), "Aspects du paratexte", in Id., Introduction aux études littéraires, Delcroix-Hallyn (ed.), pp. 210-211; citato da Jean Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni, p. 49.

[176] John Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni, p. 50.

[177] Ibid.

[178] A questo proposito, si veda Pierre Escudé, "Integrazioni, 'force d'intercourse', identità", Essais 14 (2018), p. 34: "Uno degli effetti terroristici del linguaggio è quello di imporre un 'campanilismo' in una 'forza di amplesso': un dialetto/lingua si impone agli altri fino al punto di autosacralizzarsi come lingua alta, unica, universale, e negare agli altri lo status stesso di linguaggio,  delegittimando i loro interlocutori, negando l'universo culturale veicolato, vietando ogni trasmissione, ogni coscienza e ogni memoria di una storia, di una letteratura, di un sapere erudito o divulgativo. ».

[179] John Zumstein, Il Vangelo secondo San Giovanni, p. 56: "Mentre il racconto di Gn parla della creazione del mondo e della storia da parte di Dio, il versetto 1 parla del principio prima del principio. Non è la relazione di Dio con il mondo e con gli esseri umani che è al centro della discussione, ma la relazione di Dio con il Logos in un inizio precedente alla creazione. »

[180] John Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni, pp. 56-57.

[181] Clifford Ando, "Augustine on Language", Revue des Études Augustiniennes 40 (1994), p. 45: "Possiamo vedere che le frequenti espressioni di sfida di Agostino non sono solo tropi retorici, ma anche affermazioni di principi filosofici, e che quando afferma di non aver detto nulla di significativo a parole su Dio, lo fa sul serio". (Traduzione mia).

[182] Eberhard Jüngel, Dieu mystère du monde, vol. 2, Paris, Cerf, 31983, p. 13.

[183] Ivi, p. 14.

[184] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 51.

[185] Amos Yong, « Sul legame e la perdita degli spiriti: navigare e impegnarsi in un mondo pieno di spirito », in Veli-Matti Kärkkäinen, Kirsteen Kim, Amos Yong (éd.), Discorsi interdisciplinari e religioso-culturali su un mondo pieno di spirito. Sciogliere gli spiriti, New York, Palgrave Macmillan, 2013, p. 2.

[186] Ibid.

[187] Amos Yong, cfr. supra.

[188] Dieter Zeller traduce διαίρεσις come Zuteilungen, che significa l'idea di una distribuzione per allocazione, un'allocazione, e sottolinea che "il verbo διαιρεῖν nel v. 11 suggerisce il primo significato, che include implicitamente la differenza". L'esegeta fa riferimento anche a Romani 12:6, dove Paolo parla di diversi doni (χαρίσματα διάφορα). Cfr. Dieter Zeller, Der erste Brief an die Korinther (KEK 5), Go'ttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 2010, p. 389.

[189] Amos Yong, « Sul legame e la perdita degli spiriti: navigare e impegnarsi in un mondo pieno di spirito », op. cit., p. 4.

[190] Ivi, p. 5.

[191] Wilhem von Humboldt, «Sulla diversità della struttura del linguaggio umano e la sua influenza sullo sviluppo spirituale della razza umana», in Id., Collected Writings, vol. VII, Albert Leitzmann (a cura di), Berlino/Boston, De Gruyter, 1967, p. 53 : « Il linguaggio è l'organo formativo del pensiero. »  ; Tr. Pierre Caussat, Introduction à l'œuvre sur le kavi et autres essais, Paris, Seuil, 1974, p. 192.

[192] Wilhem von Humboldt, "Sullo studio comparato delle lingue nel suo rapporto con le diverse epoche dello sviluppo del linguaggio" [1820], in ID., Sur le caractère national des langues, edizione bilingue, Paris, Seuil, pp. 88-89: "Das Wesen der Sprache besteht darin, die Materie der Erscheinungswelt in die Form der Gedanken zu gießen"; trans.fr. Denis Thouard: "L'essenza del linguaggio consiste nel gettare la materia del mondo fenomenico nella forma del pensiero".

[193] Christopher Rowland, « Teologia della liberazione », p. 648.

[194] Amos Yong, « Sul legame e la perdita degli spiriti: navigare e impegnarsi in un mondo pieno di spiriti », p. 6.

[195] Ibid.

[196] Cf supra; Amos Yong, Oltre l'impasse, p. 73.  

[197] Διάλεκτος è un deverbo di διαλέγω: conversare, conversare. Amos Yong, in relazione all'esperienza dello Spirito, parla della "ricchezza di questa conversazione globale". Vedi Scott Daniels, New Creation Conversation, Stagione 2, episodio 21: "La ricchezza di quella conversazione globale", in "Dr. Amos Yong on the Theology of the Holy Spirit and Thinking Theologically about Disability", 9 luglio 2021, 37'14, https://podcastaddict.com/episode/135254451, (ultimo accesso: 13 marzo 2022).

[198] Ivi, p. 26.

[199] Amos Yong, Oltre l'impasse. Verso una teologia pneumatologica delle religioni, Grand Rapids/Carlisle, Baker Academic/PaterNoster Press, 2003, p. 73.  

[200] Pierre Escudé, "Intégrations, 'force d'intercourse', identités", Essais 14 (2018), p. 17: "Spazio tra due lingue normate, che va dall'agrammaticalità alla traduzione osservata da Ofelia Garcia, cfr "La langue française et les autres", L'Éducation bilingue en France. Language Policies, Models and Practices, Christine Hélot e Jurgen Erfurt (a cura di), Lambert Lucas, 2016, pp. 9-13. "Non ne sono sicuro

[201] Vedi sopra.

[202] Claude Geffré, vedi sopra.

[203] Michel Quesnel, "État de la recherche sur Paul", in Andreas Dettwiler, Jean-Daniel Kaestli e Daniel Marguerat (a cura di) Paul, une théologie en construction, Genève, Labor et Fides, 2004, p. 29.

[204] Alain Badiou, San Paolo. La fondation de l'universalisme, Parigi, PUF, 2015.

[205] Michel Quesnel distingue tra, da un lato, il cristianesimo universalista di Badiou e Aganben e, dall'altro, a favore di Nietzsche, Jacob Taubes o Didier Franck, una riflessione "basata sulla concezione paolina del corpo, come corpo fisico e corpo sociale" (Michel Quesnel, "État de la recherche sur Paul", pp. 30-31).

[206] Ivi, p. 31.

[207] Ibid.

[208] Ivi, p. 38.

[209] Ibid.

[210] Alain Badiou parla in particolare di "singolarità universale"; Alain Badiou, Saint Paul, cit., p. 16.

[211] Michel Quesnel, "Stato della ricerca su Paolo", p. 30.

[212] Alain Badiou evoca "un processo di frammentazione in identità chiuse, e l'ideologia culturalista che accompagna questa frammentazione"; Alain Badiou, San Paolo, cit., p. 12.

[213] Michel Quesnel, "Stato della ricerca su Paolo", p. 30.

[214] Dieter Zeller, La prima lettera ai Corinzi, Gottinga, Vandenhoeck e Ruprecht, 2010, pp. 511-512.

[215] Ivi, p. 512.

[216] Pierre Bühler, "Pistes de travail", in André Birmelé, Pierre Bühler, Jean-Daniel Causse, Lucie Kaennel (a cura di), Introduction à la théologie systematique, Genève, Labor et Fides, 2008, p. 469.

[217] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, pp. 46-47.

[218] Ivi, p. 39.

[219] Ibid.

[220] Ibid.

[221] Ibid.

[222] Wei Hua, « La pneumatologia paolina e i riti cinesi », in Gene L. Green, Stephen T. Pardue, K. K. Yeo (ed.), Lo spirito sulla terra. Pneumatologia nel mondo maggioritario, Grand Rapids, Langham Global Library, 2016, p. 98 : « Possa lo Spirito di Dio aiutare la chiesa globale in Cina a non essere "cristianesimo in Cina", ma ad essere "cristianesimo cinese".

[223] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 40.

[224] Ibid.

[225] Ibid.

[226] Amos Yong, Rinnovare la sistematica della teologia cristiana per un cristianesimo globale, Waco, Baylor University Press, 2014, p. 19.

[227] Vedi sopra.

[228] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 68.

[229] Ciò corrisponde in particolare alla formulazione di Gv 14,2 secondo Giovanni Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni, vol. II, p. 60.

[230] Jacques Dupont, La salvezza dei gentili. Saggi sugli Atti degli Apostoli, Mahwah, Paulist Press, 1979, p. 58 : « La Chiesa è nata universale » ; cité par Craig S. Keener, Atti, un commento esegetico, p. 844.

[231] Christopher Rowland, « Teologia della liberazione », p. 648.

[232] Geffré si riferisce a Hans Urs von Balthasar (Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 75); Hans Urs von Balthasar, De l'intégration, Paris, Desclée de Brouwer, 1970, pp. 161-166.

[233] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 67.

[234] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 11.

[235] Pierre Gisel, Sortir le religieux de sa boîte noire, Ginevra, Labor et Fides, 2019, pp. 195-196: "La sfida è quella di rompere una fantasia di totalizzazione, sia essa sotto forma di conoscenza o di progetto, progetto per l'umano o progetto deliberatamente sociale. Era un sogno, e si è rivelato non solo impossibile, ma in ultima analisi illegittimo o ingannevole, che ha portato al disastro, sia a causa dei suoi impulsi totalitari – e il comunismo ne è solo un'esacerbazione – sia sotto forma di enfasi. C'era un sogno di riconciliazione, di ciascuno con se stesso e con tutti, dell'umano e del mondo, dell'umano e dei suoi ideali, prima confiscati. Un sogno fondamentalmente fusionale, o almeno omogeneo. "Non ne sono sicuro

[236] Christopher Rowland, « Teologia della liberazione », pp. 647-648.

[237] Aimé Césaire, "Lettera a Maurice Thorez", vedi sopra.

[238] Robert W. Jenson, Teologia sistematica, vol. 1, p. 25; Id., Teologia sistematica, vol. 1, tr. Serge Wütrich, Parigi, L'Harmattan, 2019, p. 44: "Credere che la Chiesa è ancora la Chiesa è credere nella presenza e nel governo dello Spirito nella Chiesa e attraverso le strutture storicamente continue".

[239] Pierre Bühler, "Lo straniero come punto di cristallizzazione dell'altro" [2015], in Id., Bewegende Begegnung. Un incontro impegnativo. Aufsätze, Einmischungen, Predigten. Articoli, interventi, sermoni, Lucie Kaennel, Andreas Mauz, Franzisca Pilgram-Frühauf, Zurigo/Ginevra, Theologischer Verlag Zürich/Labor et Fides, 2020, p. 71: "La sfida dello straniero [è anche] una sfida teologica".

[240] Dietrich Bonhoeffer, Sulla vita comunitaria, Ginevra, Labor et Fides, 2007, p. 95.

[241] Théodore Agrippa d'Aubigné, Les Tragédies, IV 691-698, ed. Frank Lestringant, Paris, Gallimard, 1995, p. 208.

[242] Jean-Claude Milner, "Lo stesso unisce? Il separato è un altro? », Banquet de La Grasse, conferenza dell'11 agosto 2016, 30'30, https://www.youtube.com/watch?v=Bx4y7IYObdw&ab_channel=Banquetdelagrasse (ultimo accesso: 27 dicembre 2022).

[243] La descrizione profetica del Giudizio Universale (Mt 25,31-46) ci invita a vedere nell'altro una figura del Signore, mentre la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-37) definisce il prossimo non come l'altro che incontriamo, ma lo definisce come noi stessi ogni volta che ci prendiamo cura dell'altro.

[244] Jean Calvin, Institution de la religion chrétienne [1541], vol. 1, Ginevra, Droz, 2008, p. 189 ss. La conoscenza di sé subordinata alla conoscenza di Dio si riferisce anche alla questione del terzo come mediazione, che qui lasciamo da parte. Si veda, in particolare, Philippe Vallin, Le voisin comme tiers personne chez Saint Thomas d'Aquin, Paris, Vrin, 2000, che cita Aelred de Rievaulx nell'esergo: "Ecce ego et tu, et spero quod tertius inter nos Christus sit".

[245] Pierre Bühler, "Lo straniero come punto di cristallizzazione dell'altro", p. 71.

[246] Ivi, 7.

[247] Martin Buber, Le chemin de l'homme d'après la doctrine hassidique, trad. Wolfgang Heumann, Paris, Éditions du Rocher, 1995, pp. 49-50.

[248] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 17.

[249] François Jullien, De l'universellel. De l'uniforme, du commun et du dialogue entre les cultures, Paris, Point, 2011, p. 220.

[250] Ibid.

[251] Ibid.

[252] Attraverso il "Museo del Rigore Scientifico", Borges offrì l'opportunità di meditare sull'astrazione e sulla riduzione, evocando un impero in cui "l'arte della cartografia era spinta a tal punto da spingervi una mappa in scala 1:1, in modo che il grado di precisione tra la mappa e il territorio fosse equivalente alla mappa che copriva il territorio. Nel contesto sociolinguistico, forse potremmo dire che i dialetti erano sia la mappa che il territorio. Cfr. Jorge Luis Borges, L'auteur et autres textes, Paris, Gallimard, 1982, p.199.

[253] Paul Ricœur, « Le paradigme de la traduction » [1998], in De la traduction, Paris, Bayard, 2004, p. 32. Cf Hölderlin, « Aber das Eigene muß so gut gelernt sein, wie das Fremde. », Lettre du 4 décembre 1801 à Casimir Ulrich Böhlendorff, Sämtliche Werke und Briefe, Bd. II, München, Carl Hanser Verlag, 1981, pp. 926-929 ; Hölderlin, Œuvres, trad. Denise Naville, Parigi, Gallimard, 1967, pp. 1003-1004.

[254] Jean-Luc Lamarre, "Educazione cosmopolita: imparare il pulito, imparare lo straniero", Le Télémaque, (2012/1) n° 4, p. 31-46.

[255] Questo rende le lingue minoritarie una figura del ridotto.

[256] Claude Geffré, op. cit. Ivi, p. 38.

[257] Ibid.

[258] Ivi, p. 56.

[259] I parlanti che imparano una lingua minoritaria (neoparlanti) si trovano di fronte alla questione della loro legittimità, che è riservata ai madrelingua. Cfr. James Costa, Kevin Petit Cahill, "Linguistic Revitalization", in Language and Society 2021/HS1, pp. 306-307: i nuovi parlanti si trovano "spesso in una situazione di illegittimità a causa della loro età, della loro origine geografica (urbana vs. rurale) o delle varietà che usano, spesso segnate dal contatto con la lingua dominante".

[260] Ibid.

[261] Patrick Sauzet, "Occitano: l'importanza di essere una lingua", p. 103.

[262] Ibid.: «La lingua occitana propone sia la considerazione di questo micro-locale, sia il suo inserimento in un rapporto specifico con il mondo, ma condivisibile, complesso e aperto all'intera umanità. [...] Siamo al mondo in una sola lingua. Mantenere aperto al mondo un modo di essere che esprima in modo specifico i luoghi e le persone che li abitano e li hanno abitati, che colleghi il contenuto più umile con quello più elaborato, questo vale già l'investimento di pochi [...]. Chissà quale sarà il prezzo di poter reinvestire in una cultura pulita domani? Si tratta di mantenere il più ricco possibile il funzionamento di un linguaggio per accogliere coloro che scenderanno delusi dalla Torre di Babele. "Non ne sono sicuro

[263] Qui prendiamo in prestito la nozione di "universale dominante" da Julia Christ, L'oblio dell'universale. Critica del liberalismo di Hegel, Parigi, PUF, 2021, pp. 61 e seguenti.

[264] Qui riprendiamo la divisione di Julia Christ tra il modello althusseriano e il modello smithiano.

[265] Julia Christ, L'oubli de l'universel, p. 6.

[266] Ivi, p. 31.

[267] Louis Althusser, Sur la reproduction, Parigi, PUF, 1992, p. 288.

[268] Julia Christ, L'oubli de l'universel, p. 31.

[269] Louis Althusser, Sulla riproduzione, p. 295.

[270] Giulia Cristo, Dimenticare l'universale, p. 33. Julia Christ cita l'illustrazione althusseriana: "Questo è ciò che sei: tu sei Pietro! Ecco, questa è la tua origine, sei stato creato da Dio da tutta l'eternità, anche se sei nato nel 1920 d.C.! Questo è il tuo posto nel mondo! Ecco cosa devi fare! Perciò, se osservi la legge dell'amore, tu, Pietro, sarai salvato e diventerai parte del Corpo Glorioso di Cristo! and so on. (Louis Althusser, Sulla riproduzione, p. 300).

[271] Julia Christ, L'oubli de l'universel, p. 178.

[272] Ivi, pp. 178-179.

[273] Jean-Claude Milner, L'universel en éclats, Paris, Verdier, 2016, p. 8: "Interrogarsi sull'universale è interrogarsi sull'operatore di tutto".

[274] Perrine Simon-Nahume, "L'ebreo di Milner. Gli ebrei possono uscire dalla storia? Le Genre humaine 2016/1-2 (N° 56-57), p. 596.

[275] In effetti, Milner attribuisce ad Alessandro, non a Paolo, il passaggio dall'universale all'universalismo. (Milner, L'universale in frammenti, pp. 71 ss.).

[276] Tacito, Storie, V, 4-5, trad.

[277] Jean-Claude Milner, L'universale in frammenti, p. 117.

[278] Ivi, p. 123.

[279] Ibid., p. 115: "Più precisamente, una formula del linguaggio tocca la verità, se è abbastanza potente da ferire l'operatore di tutto".

[280] Pierre Bonnard, L'évangile selon saint Matthieu (Genève, Labor et Fides, 20024), p. 232; voir aussi Matthias Konradt, Il Vangelo secondo Matteo (Göttingen/Bristol: Vandenhoeck & Ruprecht, 2015), 250: «[La donna cananea] mostra una fede che già riconosce in Gesù non solo il Messia d'Israele, ma Colui che, come Messia d'Israele, è anche il Salvatore per le nazioni.

[281] Matthias Konradt, Il Vangelo secondo Matteo, p. 249.

[282] Il rimprovero che si sente nella canzone "Stereotypes" del gruppo Mauresca è che la lingua egemonica rivendica come suo patrimonio ciò che ha ottenuto per diritto di conquista, ma invece di appropriarsene, facendo propria la lingua occitana, la lascia appassire: "La tua è tua ma la mia non è credibile". Questione di reversibilità o reciprocità? La domanda potrebbe essere: cosa fai con il mio? Che cosa fai con quello che mi hai tolto? Ho fatto del linguaggio che mi hai imposto una mia proprietà, ma quello che mi hai tolto, non te ne sei appropriato.  Cfr. Mauresca, "Stereotypes" [videoclip diretto da Amic Bedel], 2008, https://www.youtube.com/watch?v=F2IHL0pNuJs&ab_channel=MaurescaFracasDub (ultimo accesso: 21 dicembre 2022).

[283] La parola vicino è la parola scelta per tradurre in seguito da Levitico 19:18. L'oratore in una situazione diglossica conosce bene la lingua del suo vicino. Può pensare nella lingua del suo vicino. Ma questa vicinanza, questa vicinanza, è di natura tale da espellerlo dalla sua lingua, da perdere del tutto ciò che non era suo, da renderlo estraneo a se stesso in un modo che non è quello offerto dalla scoperta di una cultura straniera, ma in un modo che porta alla completa alienazione di chi parla. In effetti, l'oratore può arrivare al punto di rinunciare a trasmettere ciò che ha ricevuto. Si sgancia quindi da un simulacro di scambio in cui è diventato un anello nella trasmissione di questo prossimo.

[284] Dietrich Bonhoeffer, Sulla vita comunitaria, p. 95.

[285] Ibid.

[286] Ivi, p. 96.

[287] Paul Ricœur, Soi-même comme un autre, Paris, Seuil, 1990, p. 197.

[288] Ibid.

[289] Paul Ricœur, Autrement. Lecture d'autrement qu'être ou au-delà de l'essence d'Emmanuel Levinas, Paris, PUF, 2006, p. 10-11.

[290] Ricœur, Autrement, p. 18: "Non abbiamo mai finito di dirlo diversamente, è solo nelle crepe della solidità delle correlazioni nascoste che si può sentire nel Dire un'eco del Detto, la promessa della possibilità di risalire dal Detto al Detto".

[291] Ivi, p. 19.

[292] Emmanuel Levinas, Autrement qu'être ou au-delà de l'essence, Paris, Librairie générale française, 1978, p. 142: «La prossimità non entra in questo tempo comune di orologi che rende possibili gli appuntamenti. E' inquietante. "Non ne sono sicuro

[293] Augustin d'Hippone, « Sermo CXVII », in Opera omnia, éd. Jacques-Paul Migne, Paris, Garnier, 1865, p. 663 (PL 38, pp. 661-671) : « Si enim comprehendis, non est Deus. ».

[294] Ricœur, Autrement, p. 20.

[295] Ibid., 25: "L'angoscia del discorso [di Levinas] è ulteriormente aggravata dal rifiuto e dalla negazione di qualsiasi soluzione 'teologica, lenitiva o consolante'".

[296] Emmanuel Levinas, Altro che essere o al di là dell'essenza, p. 176.

[297] Emmanuel Levinas, Altro che essere o al di là dell'essenza, p. 175.

[298] Paul Ricœur, Autrement, p. 26: "È in questo che l'espiazione non è redenzione".

[299] Il verso di Mistral, "Signore, stacca la mia lingua", è un libero adattamento del v. 16 del Sal 51 (50): "O Dio, Dio della mia salvezza, liberami dal sangue, e la mia lingua griderà"), Frédéric Mistral, "Saume L Miserere mei, Deus" [1856], Œuvres poétiques complets, t. II, ed. Pierre Rollet, Aix-en-Provence, Ramoun Berenguié, 1966, p. 391.

[300] Il testo greco γλῶσσαι, παύσονται (1 Cor 13,8c) è reso come "le lingue cesseranno" (Osty), anche "cessaràn" (Roqueta-Larzac), "tacerà" (NBS, BJ), "si siederà" (Cubaynes), "finirà" (TOB). In contrasto con l'amore che non viene mai meno, potremmo anche dire "las lengas faliràn".

[301] Dieter Zeller, La prima lettera ai Corinzi, 415: "Ma anche questo discorso distaccato deve cessare nel suo completamento. Perché? Questo può essere solo intuito da quanto segue: è sostituito da qualcosa di più perfetto, in cui la comunicazione non richiede più il linguaggio. ».

[302] Kurt Mueller-Vollmer, Markus Messling, « Wilhelm von Humboldt », The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2017 Edition), éd. Edoardo N. Zalta; https://plato.stanford.edu/entries/wilhelm-humboldt/ (dernier accès : 2 octobre 2021) : « Humboldt considerava la funzione del linguaggio come non limitata semplicemente alla rappresentazione o alla comunicazione di idee e concetti esistenti, ma come "organo formativo del pensiero" (das bildende Organ des Gedankens, GS Vol 6: 152) e quindi strumentale anche alla produzione di nuovi concetti che non sarebbero nati senza di esso. ».

[303] Wolfhart Pannenberg, Theologie und Reich Gottes, Gütersloh, Mohn, 1971; citato da André Birmelé, "L'eschatologie", in André Birmelé, Pierre Bühler, Jean-Daniel Causse e Lucie Kaennel (a cura di), Introduction à la théologie matique, Genève, Labor et Fides, 2008, p. 390.

[304] Vedi sopra.

[305] Pierre Theilhard de Chardin, "Lettera del 12 ottobre 1951", in Lettres intimes de Teilhard de Chardin, introduction et notes d'Henri de Lubac, Aubier-Montaigne, 1974: "Fin dalla mia infanzia, la mia vita spirituale non ha cessato di essere completamente dominata da una specie di profondo 'sentimento' della realtà organica del Mondo; un sentimento inizialmente piuttosto vago nella mia mente e nel mio cuore, ma gradualmente divenuto, con il passare degli anni, un senso definito e pervasivo di una generale autoconvergenza dell'Universo; questa convergenza coincide e culmina al suo sommità, con l'Uno costante in quo omnia, che il Cielo mi ha insegnato ad amare. "Non ne sono sicuro

[306] Mt 6,5: Io mi dico:  hanno  il loro salario.

[307] Raimon Panikkar, Il discorso intrareligioso, p. 144.

[308] Ibid.

[309] Si tratta di una citazione non documentata, regolarmente attribuita in francese a Kierkegaard, a differenza della meditazione di Kierkegaard sulla tomba vuota cfr Søren Kierkegaard, Entweder-Oder, Michael Holzinger, Berliner Ausgabe, 2013, pp. 207-210.

[310] Matteo descrive il Padre come τέλειος, chiamando i credenti a conformarsi a lui (Mt 5,48: Ἔσεσθε οὖν ὑμεῖς τέλειοι ὡς ὁ πατὴρ ὑμῶν ὁ οὐράνιος τέλειός ἐστιν). E Mt 24,14c (καὶ τότε ἥξει τὸ τέλος, "e allora verrà il τέλος") può essere inteso come riferito al ritorno di Gesù.

[311] Jürgen Moltmann, Teologia della speranza. Studi sui fondamenti e le conseguenze di un'escatologia cristiana, Parigi, Cerf, 19834, p. 13: «L'escatologia cristiana non parla [del futuro in quanto tale]. [...] L'escatologia cristiana parla di Gesù Cristo e del suo futuro. (Scegliamo qui di rendere 'Zukunft' come 'futuro', i traduttori francesi hanno scelto di renderlo come futuro).

[312] Albert de Pury, Thomas Römer, Konrad Schmid, Genesi, p. 26: "[...] il Dio Creatore può ricorrere, se necessario, per farne lo strumento della distruzione della terra abitabile. ».

[313] Jürgen Moltmann, Teologia della speranza, p. 12.

[314] Ibid.

[315] André Birmelé, "Escatologia", p. 376.

[316] Christopher Rowland, « Teologia della liberazione », p. 648 : « È la sua speranza per un mondo migliore che collega la teologia della liberazione in termini generali con la tradizione chiliastica nel corso dei secoli [...]. L'eredità della Città di Dio di Agostino è stata così pervasiva nella dottrina cristiana che la visione di una speranza di questo mondo è stata interpretata in termini ultraterreni o semplicemente spinta ai margini della tradizione cristiana. ».

[317] Isabelle Ullern, Pierre Gisel (a cura di), Penser en commun? Un "rapporto non correlato". Jean-Luc Nancy e Sarah Kofman, lettori di Blanchot, Paris, Beauchesne, 2015, pp. 109-138.

[318] "Se uno è in Cristo, è una nuova creazione [καινὴ κτίσις]. Ciò che è vecchio è passato e c'è qualcosa di nuovo» (2 Cor 5,17; NBS). Vedere anche Galati 6:15.

[319] Le ideologie dell'odio recuperano volontariamente e superficialmente quelli che considerano marcatori identitari, mentre sviluppano e attuano un'ideologia dell'uomo nuovo (nazismo, fascismo), motivo trasversale dei tre totalitarismi del Novecento, tra cui lo stalinismo. Il sospetto del fascismo che i suoi detrattori amino contaminare le culture tradizionali può essere ribaltato di fronte alla constatazione che il fascismo valorizza l'uomo nuovo e finisce sempre per fare tabula rasa dell'esistente per affermarsi. La valorizzazione della tradizione nella fase della seduzione è la valorizzazione di una narrazione nazionale fantastica, mascherata, asservita all'ideologia e può solo sedurre una massa già espropriata del suo patrimonio. La descrizione della barbarie di Walter Benjamin si basa sulla figura del costruttore, colui che costruisce "sopra qualcosa di nuovo". Non si tratta qui del nove familiare di cui il linguaggio è capace, ma del nove radicale, quello che promette un progetto di annientamento, e come tale non ha alcun legame con il passato se non i suoi sforzi per negarne l'esistenza; Walter Benjamin, "Erfahrung und Armut" [1933], Gesammelte Schriften, vol. 2, Francoforte, Suhrkamp, 1991, p. 213; "Walter Benjamin, Esperienza e povertà" [1933], trad. Philippe Beck e Berndt Steigler, Belin/Humensis, p. 7.

[320] Jürgen Moltmann, Teologia della speranza, p. 331.

[321] Friedrich Nietzsche, così parlava Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Kehl, Swan Book Distribution, 1994, p. 74 : « Annienta sempre chi deve essere un creatore. ».

[322] Noam Chomsky, Le langage et la pensée, Paris, Éditions Payot et Rivages, 2009, 47; Language and Mind, 3a ed., Cambridge, Cambridge University Press, 2006, xiv, 10 e passim.

[323] Sulla compatibilità o incompatibilità tra un processo Dio e la questione di Barth della temporalità di Dio, si rimanda a Mark James Edwards, Christ is Time, Eugene, Wipf and Stock, 2022, 157-159.

[324] D'altra parte, il Dio delle possibilità si presenta proprio come il Dio di tutti: "Io sono il Signore (YHWH), il Dio di tutti. C'è qualcosa di sorprendente in me? (Ger 32,27).

[325] Usiamo la nozione in senso stretto dell'occitano benvolença, deverbale di benvoler, amare qualcuno, al fine di evitare qualsiasi idea di benevolenza. "O poder tot" (essere in grado di fare tutto) è da distinguere da "o to fly tot" (volere tutto).

[326] Qui lasciamo da parte la nozione di collaborazione intesa in connessione con il dibattito sulla giustificazione, così come il dibattito sulla possibilità per l'uomo di volere il bene. Ci concentriamo sull'interesse di Dio a mantenere un rapporto non fusionale con la sua creatura nell'ἔσχ ατον, assumendo/sperando che l'ἔσχατον non costituisca il puro e semplice annientamento della persona.

[327] Sulla questione dei binomi/paradossi dialettici, così come su quella del velare e svelare Dio nella sua rivelazione, si veda Christophe Chalamet, Théologies dialectiques, pp. 13 ss.

[328] Jürgen Moltmann, Teologia della speranza, p. 101.

[329] Ibid., p. 125: «Dio si rivela "se stesso" "osservando per sempre la sua alleanza e la sua fedeltà" (Sal 146,6)».

[330] Eberhard Jüngel, L'Essere di Dio è in divenire. Discorso responsabile dell'essere di Dio di Karl Barth. Eine Paraphrase [1965], Tübingen, Mohr, 19864.

[331] André Birmelé, "L'eschatologie", pp. 393-394.

[332] Riprendiamo l'idea di Charles Mathewes, che rende conto della speranza cristiana in modo concreto applicandola alla vita pubblica. Dopo aver ricordato la natura profondamente ambivalente della speranza (potente anestetico, incontenibile stimolante), rifiuta sia i modelli conservatori che quelli liberazionisti, ma anche i modelli di equilibrio tra i due. L'obiettivo è quello di comprendere meglio il fenomeno della "speranza" attraverso queste due caratteristiche, la sua capacità di mobilitare e generare visione. In fin dei conti, la nostra speranza è secondaria. Ciò che ha la precedenza su di essa è, da una parte, la nostra risposta e dall'altra colui che chiama (p. 245). Il modo in cui il mondo può cambiare (p. 244) è sottoposto a un «giudizio escatologico radicale» (p. 245), articolando così immanenza e trascendenza. È proprio perché la speranza ci coinvolge nel mondo che ci cambia: «Siamo, in un certo senso, diversi da noi stessi quando speriamo» (p. 246), facendo così della speranza un modo di abitare il mondo. La speranza provoca l'azione, ma ci invita anche a unirci a questa speranza, ciò che Mathewes chiama il valore vocativo della speranza (p. 247). In tal modo, esistono elementi di distorsione. In particolare: "La speranza non promette che le nostre speranze si realizzeranno, ma piuttosto che la volontà di Dio sarà compiuta". (pag. 251) Il resoconto di Mathewes della nozione prende forma in modo netto di fronte ai discorsi chiusi con cui la vita pubblica e politica si confronta con il credente: "Più direttamente, dietro ciascuno di essi c'è il riconoscimento che il nostro mondo è più di quanto questi sistemi gli permettano di essere". (pag. 254). Oppure: "Gli esseri umani e le loro azioni trascendono la loro pura letteralità, e la speranza escatologica delle chiese emerge in parte attraverso il loro rifiuto di prendere il sistema dello stato-nazione con la massima serietà". (pag. 255). Charles T. Mathewes, A Theology of Public Life (Cambridge: Cambridge University Press, 2007), p. 246: "Siamo, in un certo senso, persone diverse quando speriamo".

[333] Blaise Pascal, Pensées, testo di Léon Brunschvigg, Parigi, GF-Flammarion, 1976, p. 81.

[334] Charles T. Mathewes, Una teologia della vita pubblica, p. 257.

[335] Ivi, p. 258.

[336] Charles Wagner, L'Homme est une espérance de Dieu, Paris, Van Dieren, 2007, p. 167.

[337] Dietrich Bonhoeffer, Sulla vita comunitaria, Ginevra, Labor et Fides, 2007, p. 95.

[338] Basilio di Cesarea, Omelie sull'esamerone, I 8, 20-28, SC, Paris, Cerf, 1968, p. 121.

[339] Jakob Wirén, Speranza e alterità: escatologia cristiana e ospitalità interreligiosa, Leiden/Boston, Brill/Rodopi, 2018, p. 19 : « L'approccio particolarista è una risposta gradita ad alcune delle carenze dell'esclusivismo, dell'inclusivismo e del pluralismo, non da ultimo in termini di riconoscimento delle differenze tra le tradizioni religiose e quindi di rispetto dell'integrità di queste tradizioni. Ma la forte enfasi sull'incommensurabilità e la metafora delle lingue separate sollevano anche interrogativi sulla possibilità che persone di fedi diverse siano effettivamente in grado di capirsi e di condividere esperienze. L'attenzione unilaterale alle differenze impedisce lo scambio reciproco e la critica e tende a isolare le tradizioni religiose l'una dall'altra. ».

[340] Friedrich Schleiermacher, "Sui diversi metodi di traduzione", trad. A. Berman, Paris, Seuil, 1999, p. 85.

[341] La frase "lenga del brèç" è una frase ricorrente in occitano.

[342] 1 Cor 15,36, traduzione di Giovanni Calvino, cfr. supra.

[343] Eberhard Jüngel, Dieu mystère du monde, t. 1, tr.fr. Horst Hombourg (dir.), Paris, Cerf, 1983, p. 80.

[344] Paul Ricœur, "Inviare", in I protestanti e le sfide del XXI secolo. Atti del colloquio per il 50° anniversario del giornale Reform, Ginevra, Labor et Fides, 1995, p. 152.

[345] Charles T. Mathewes, Una teologia della vita pubblica, p. 258.

[346] Questa è la "questione dei tempi moderni" secondo Jüngel, cioè la questione della fine della metafisica. Cfr. Eberhard Jüngel, Dio mistero del mondo, pp. 52 ss.

[347] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 71.

[348] La domanda allora sarebbe: è possibile concedere alle lingue, in particolare alle lingue minoritarie, uno statuto teologico vicino a quello accordato da Karl Rahner alle religioni? Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 51.

[349] Ci riferiamo ad Amos Yong come a quella che egli chiama una "teologia pentecostale delle lingue umane", nel senso di una "teologia delle lingue umane basata su Atti 2". Amos Yong, Rinnovare la sistematica della teologia cristiana per un cristianesimo globale (Waco: Baylor University Press, 2014), p. 242: "Ancora una volta, questo non significa che tutti gli aspetti di tutte le religioni siano redenti, né che tutti gli aspetti di ogni cultura o tutte le parti di ogni lingua siano così santificati dallo Spirito. [...] Nel frattempo, però, ogni lingua, ogni cultura e persino ogni tradizione religiosa porta potenzialmente, anche con esitazione a causa del suo carattere finito e decaduto, la testimonianza di Colui al quale tutte le cose finiranno per essere sottomesse. "Non ne sono sicuro

[350] Eberhard Jüngel, Dieu mystère du monde, vol. 2, Paris, Cerf, 31983, p. 13.

[351] Eric Gans, citato da Jean Baudrillard, Le crime parfait, Paris, Éditions Galilée, 1995, p. 11.

[352] Claude Geffré, Da Babele alla Pentecoste, p. 35.

[353] Robert W. Jenson, Teologia sistematica, 32.

[354] Christopher Rowland, « Teologia della liberazione », p. 648 : « L'antropologia teologica che si informa sulla pneumatologia mette in discussione il fatalismo di una visione della peccaminosità umana che dispera della possibilità di cambiamento ».

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